L’editoriale di Deborah Divertito: “Quando il calcio è una questione di vita o di morte”

Il venerdì c’è l’anticipo della serie B. Il sabato c’è l’anticipo della serie A. La domenica si gioca dalle 12:30 fino alla sera. Il lunedì, a volte, c’è il posticipo, come il nostro Napoli in questo turno contro il Genoa. Il martedì e il mercoledì la Champion’s e il giovedì l’Europa League.  E poi di nuovo il venerdì. Il tutto intervallato da pagelle sui giornali, gli highlights su youtube a ripetizione, ‘a bullett’ da giocare, gli opinionisti di ogni sorta, dalle soubrette con le mega tette ai procuratori che fanno il male degli assistiti, dai giocatori-meteore che non hanno mai saputo fare neanche uno stop a palla ferma e in allenamento a giornalisti che giornalisti non sono ma che inventano notizie come se fossero vere. Amiamo il calcio, in ogni sua sfaccettatura, anche quando capiamo che è uno sport malato di soldi, d’intrecci che non sapremo mai, di giocatori strapagati, di arbitri al di sotto di ogni sospetto e di scudetti decisi a tavolino. Nonostante tutto, è una malattia che ci fa restare lì, su quegli spalti, a sostenere e a tifare. Come se fosse una questione di vita o di morte.

Come se fosse.

In alcuni casi, invece, lo è per davvero.

Il 31 gennaio scorso Jawhar Nasser Jawhar, 19 anni e Adam Abd al-Raouf Halabiya, 17 anni, due giovani calciatori palestinesi, stavano camminando verso casa subito dopo essersi allenati al Faisal al-Husseini Stadium ad al-Ram. Mentre camminavano alcuni soldati israeliani hanno sparato ad entrambi.
I due ragazzi hanno appena saputo dai medici di Ramallah che, a causa dei danni riportati, non potranno mai più praticare sport e dovranno sottoporsi ancora a mesi di cure prima di sapere se potranno di nuovo camminare
.”

Due calciatori di 19 e 17 anni. Due ragazzi con la divisa della propria squadra che non potranno mai più giocare a calcio perché altri due ragazzi, con una divisa diversa, non camouflage che va di moda, ma  militare, hanno sparato ad un checkpoint, con pistole vere, mirando volutamente alle gambe. Non solo Jawhar e Adam non giocheranno più a calcio, ma, molto probabilmente, non cammineranno neanche più. Capendo, a proprie spese, che anche fare sport può essere una questione di fortuna. Che nascere in un posto del mondo piuttosto che in un altro può dire molto. Che nascere dalla parte giusta è fondamentale. Soprattutto, che dipende da chi decide quale sia la parte giusta. 

Non è la prima volta, e, temo, non sarà l’ultima, che leggo una notizia del genere. Morti per liti in campo, arbitri picchiati, partite che non possono essere disputate perché i campi sono stati disseminati da mine anti uomo. Ed ogni volta, penso a noi. Abituati a seguire il calcio tutti i giorni, come se non fosse una conquista ogni volta. Penso ai privilegi dei calciatori nei nostri campionati. Alle scuole calcio dei nostri ragazzi. Penso a quando il fuorigioco di sette millimetri non chiamato diventa il centro dei nostri discorsi, o il coro razzista diventa motivo di odio tra due tifoserie. Penso a chi aspetta Napoli-Juventus per tutto l’anno come se fosse la rivalsa di 150 anni di storia malata e ingiusta. La stessa storia malata e ingiusta, solo più recente, che ha portato due ragazzi israeliani e togliere per sempre a due ragazzi palestinesi la possibilità di dare un calcio ad un pallone. Anche solo per gioco.

Fatelo anche voi. Pensateci anche solo per un attimo. E poi, ditemi, se una partita come Napoli-Juventus vi sembra ancora una questione di vita o di morte.

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