Attila Sallustro, il Primo Amore Azzurro

È un giorno del 1932. Napoli, Via Roma. Un baldanzoso giovanotto, forse un po’ distratto alla guida della sua Balilla 521 nera, investe un passante. Questi, per niente scosso, si rimette in piedi, ed esclama meravigliato tutta la sua gioia: “Scusate tanto, è colpa mia. Voi potete fare tutto quello che volete”. Il ragazzo alla guida era Attila Sallustro, il primo Vero Amore del Napoli.

Nato ad Asunciòn, nel 1908, Sallustro aveva il destino segnato. Non voleva giocare a calcio. No. Lo sport cominciò a praticarlo perché glielo impose il medico. Le febbri reumatiche lo spinsero, così, ad 8 anni nella squadra dei pulcini della città. A 12, insieme alla famiglia, si trasferì a Napoli.

Tra i fratelli era quello più vivace. E quella passione per il calcio gli rimase dentro. Amava giocare con la palla per la Villa Comunale. Si distingueva dagli avversarsi per una ragione in particolare: non la passava mai. Mai.

Ma i talent scout, sebbene stiamo parlando di parecchi anni orsono, erano al lavoro già all’epoca. E fu così che Attila Sallustro approdò all’Internazionale, la seconda squadra di Napoli. Aveva solo 17 anni. Nel 1926, quando nacque il miracolo azzurro, quando la SSC NAPOLI diventò realtà, fu lui a prendersi il numero 9. Aveva 18 anni ed era il primo centravanti azzurro della storia.

Una storia. Una favola. Un’impresa che non finisce qui. Sallustro raggiunse livelli epici nella memoria dei napoletani. E non solo per le sue strabilianti doti fisiche. “Partivo da centrocampo, scartavo due, tre avversari e arrivavo in porta col pallone”, raccontava agli amici quasi come se fosse un gioco di carte. Il suo allenatore lo chiamava “Il Gaucho”, altri lo definirono “Il Veltro”. Rimaneva impressa la sua velocità di gambe, i suoi guizzi rapidissimi, la prestanza fisica, la potenza.

Ma Attila Sallustro è ben altro. Suo padre, uno che potremmo definire uomo dai grandi principi, non gradiva che il figlio guadagnasse denaro dall’attività sportiva. Per questo gli impose di giocare gratis. Attila Sallustro diventò non solo il primo centravanti azzurro, il primo sogno, la prima celebrità, ma anche, e soprattutto –per le sue tasche – il primo calciatore a rivestire la maglia del Napoli che non percepisse alcun stipendio. Un caso, da quello che sappiamo, unico nella storia. I suoi guadagni, secondo le usanze dell’epoca, sfioravano il baratto. Camicie di seta, orologi, abiti, stoffa. Solo qualche anno dopo fu costretto a diventare professionista, accettando il contratto di 900 lire che lo legava alla società.

Nel tempo, quel ragazzone venuto dal Sud America, divenne un idolo. E molto di più. La sua fama crebbe, proprio come il suo stipendio. Arrivò a guadagnare fino a 3mila lire, premi partita esclusi. Dopo un memorabile 5-0 esterno sul Modena, la società gli regalò la Balilla 512 nera. Dicono provasse particolare piacere a battere proprio Combi, storico portiere juventino. Fu sua la doppietta che mise al tappeto la Vecchia Signora nel 2-0 del 1932. Ma Sallustri, potenza sul campo, era anche protagonista assoluto della città. Gruppi di tifosi si riunivano spesso alla sera in via Filangieri, proprio sotto il suo balcone, al numero 11, per acclamarlo. La sua carnagione scura, la chioma bionda, gli occhiali da sole, lo rendevano semplicemente un divo. Si racconta che una sera, al Teatro Nuovo per gli spettacoli di varietà, Sallustro avesse scelto con un secco “Lei” la soubrette con cui passare il resto della vita. Aveva 24 anni ed il colpo di fulmine fu servito. Si sposarono.

Quando la moglie fu scritturata per un lavoro da attrice di teatro a Roma Sallustro fu tentato di cambiare aria. Si racconta che proprio un tifoso gli si avvicinò, pregandolo. “Se andate a Roma, io vengo con voi. Però cercate di non farlo perché tengo moglie e come faccio a portarmela appresso?”.

La leggenda narra che fu proprio la moglie la causa principale del suo declino. In senso fisico, ovviamente. La bella vita, unita all’amore per la propria compagna, portarono “Il Gaucho” al ritiro, ad appena 30 anni.

Con gli azzurri trascorse 11 stagioni, dal 1926 al 1937, giocando 262 partite e mettendo a segno 103 gol. Numeri che sanno di record.

Dopo parecchi anni a Roma, dove si era trasferito insieme alla moglie, Sallustro tornò sotto il Vesuvio, dove per due decenni ricoprì il ruolo di direttore dello Stadio San Paolo. Nemmeno la sua morte, nel 1983, placò il suo ricordo. Fu lo stesso Maradona a combattere per intitolargli lo stadio di Fuorigrotta. Ma il vescovo Sorrentino, al capo della diocesi di Pozzuoli, si oppose fermamente. “E’ irriguardoso e irriverente sostituire il nome di San Paolo allo stadio. Qui sbarcò il santo”.

Ad Attila Sallustro fu intitolata una piccola via di periferia, a Ponticelli. Suo figlio, ancora oggi, combatte per mantenere vivo il suo ricordo. Appena qualche anno fa ha scritto una lunga lettera all’ex sindaco Iervolino, affinché lo stadio fosse intitolato a suo padre. Ma nulla. La lotta non ha avuto esito positivo. Attila Sallustro, invece, continua a cavalcare nella nostra memoria. Corre sul campo, avanza veloce dribblando gli avversari. Arriva davanti al portiere e insacca. Poi, dopo qualche secondo, si gira verso di noi. E ci strizza un occhio. Sorridendo.

Ciao Attila.

Raffaele Nappi

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