Fischia il vento e infuria la bufera…

E San Paolo fu.

Torniamo in casa nostra dopo due trasferte da brividi. Tre goal li abbiamo presi a Torino per manifesta inferiorità. Tre goal li abbiamo presi dalla Lazio per manifesta stupidità. Andiamo allo stadio con l’Atalanta senza voler manifestare niente. Solo non fare figuracce.

Appunto.

Lavoriamo dalla mattina presto, andiamo a una riunione, poi a un’altra, risolviamo problemi e ascoltiamo problemi e ci facciamo mille problemi. Il tutto guardando l’orologio, cogliendo i sospiri pazienti di colleghe che ti vogliono bene e assecondano da anni la nostra malattia.

Facciamo le corse, guidiamo mentre chiamiamo chi dovrebbe essere già allo stadio a prendere i posti, perché nonostante tutto sai che la curva  è piena e rischi di non essere vicina agli altri.

Abbiamo pranzato poco o niente e quando arriviamo a casa riusciamo solo a salutare frettolosamente chi sta aspettando da un’ora, ha preparato i panini, ha asciugato la maglia portafortuna nel forno a microonde perché la pioggia d’aprile ha cercato di fregarci, ma noi siamo più furbi. Abbiamo solo il tempo di toglierci i vestiti decenti di lavoro e metterci quelli scomposti da stadio, addentare mezza fetta di pastiera che ci stava chiamando con gli occhi a cuoricino e non abbiamo saputo dire di no, nonostante i buoni propositi della dieta post-resurrezione.

Il tutto preparando lo zainetto portafortuna cercando di non dimenticare panini, chewing gum antistress, abbonamento e documento. Prendiamo le chiavi della macchina e voliamo allo stadio.

Arriviamo al San Paolo con il parcheggio ai campetti quasi pieno, i cancelli senza fila e i tornelli vuoti. In curva gli amici hanno preso posto anche per noi, li ringraziamo sapendo che ognuno fa quel che può per l’altro. Sempre.

Ma con la testa siamo ancora a lavoro, dobbiamo risolvere ancora delle cose, siamo al telefono costantemente, due telefoni doppiamente costantemente; mentre sei nella chiamata cruciale passa “Guaglò, chi ‘o ‘e” accanto e non sai come giustificare quel dittongo urlato nell’orecchio a chi sta dall’altro lato della linea. Capiamo che è il caso di mettersi in un posto più appartato per risolvere la questione al telefono.

Ci rendiamo conto che siamo al San Paolo, quando forse dovremmo essere da un’altra parte, ma noi non ci arrendiamo mai e preferiamo l’esaurimento nervoso, le corse maledette e parlare al cellulare in posizioni improponibili pur di stare lì a sostenere i nostri azzurri.

Dopo tutto ciò, ci possiamo rilassare un attimo. Il riscaldamento inizia. Distribuiamo un po’ di ovetti pasquali, commentiamo l’assenza di Aronica come un vero dispiacere per chi l’ha sempre criticato, realizziamo che una dei nostri manca di nuovo per una riunione di condominio, chiediamo un gruppo su FB per non prendere Chivu, qualcuno ironizza sul fatto che sarebbe l’unico a Napoli a portare il casco.

Poi comincia la partita e mentre ancora stiamo leggendo un messaggio di lavoro perché chi lavora con te sa che  è cominciata la partita e continua ad assecondarti in questa malattia con estrema pazienza, ecco arrivare il goal di quella che sembra giocare come l’Inter dei bei tempi. De Sanctis, abituato ai suoi defunti tenori, sembra sorpreso del fatto che qualcuno possa tirare in porta da una distanza del genere senza fare almeno altri cinque passaggi e becca il primo goal. Restiamo impietriti, tranne la bocca che si lascia andare in una serie d’imprecazioni con il fantasma delle ultime due sconfitte che se la ride.

Poi segniamo noi. Dopo un tiro sbagliato del Pocho, una palla non trattenuta da Consigli e un tiro di rabbia in porta sempre del Pocho. È un’esultanza di rabbia, la nostra stavolta. Di stress accumulato ed esploso. Eppure lo aveva sbagliato anche questo.

Tra il primo e il secondo tempo salutiamo un amico venuto da Verona per le feste e rimasto qui per la partita, costringendo moglie e figli a fare altrettanto. Domattina dovrà alzarsi presto per tornare a casa e subito a lavoro. Si commenta il panorama di questi giorni con le vele nel golfo, dice che sono sferzante, ma io ripeto che quando vanno via queste a noi ci restano solo le vele di Scampia. Ed è lì che dobbiamo mostrare la nostra passione per questa città.

Insomma, continuiamo a pensare che ci possiamo rialzare. E il discorso vale anche per la squadra.

Ma non avevamo ancora vissuto il secondo tempo. La disfatta è stata totale. Altri due goal loro, due tiri scemi nostri, un Pandev impazzito, un Dossena ignorato, un Campagnaro fermo e testardo nel crossare, un Cavani rapito dagli alieni, un Lavezzi che corre come un pazzo, un Vargas ancora in versione pacco, un Gargano in versione doppio pacco, un De Sanctis che non esce neanche se lo inviti a cena, uno Smaili che sulla fascia fa quasi tenerezza. E un Hamsik acclamato più volte  dalla panchina, credendo che non stesse giocando. Abbiamo applaudito l’Atalanta, fischiato il Napoli. Mai avremmo voluto. E pensare che avevamo sdrammatizzato gli sfottò di Torino e Roma chiedendoci quale fosse l’inno bergamasco da cantare in caso di vittoria. E avevamo azzardato un “Oj  pota mia”.  Adesso ci mangiamo la lingua.

A fine partita si è passati da un “Non ci meritate”, a un “Ci facciamo un mazzo così per seguirvi ovunque e comunque”, e ancora “Andate a lavorare e poi vedete se vi stancate”.

Insomma, tanta delusione. E non per il risultato. Certo, anche quello. La coerenza nel prendere tre goal da chiunque non fa piacere e con la sconfitta della Lazio, dell’Udinese e la vittoria della Roma, abbiamo perso un’altra buona occasione. Il problema è che quei signori lì non si sono sporcati neanche la maglia. Non hanno sudato. Probabilmente sono tornati a casa senza il bisogno di farsi la doccia.

E questo fa male a chi invece torna a casa e non ha neanche la forza di farsi una doccia, non riesce a dormire per il nervosismo, non sorriderà domani a lavoro perché starà pensando che abbiamo fatto segnare Bellini, Carmona e Bonaventura. Uno al suo primo goal in serie A, uno al suo primo goal in Italia e un altro che non segnava da anni. E qualcuno sugli spalti ha visto segnare Denis e non l’ha visto esultare. Forse la speranza di regalare almeno una gioia a un ex a cui vogliamo ancora bene.

Ebbene, sì. Abbiamo fischiato. Cari benpensanti di salotto, abbiamo fischiato. Cari tifosi buonisti, abbiamo fischiato. Cara signora Gargano, abbiamo fischiato anche tuo marito. Con tutto il fiato che avevamo in gola. Perché è con questo stesso fiato che fino ad ora abbiamo sostenuto ed è con questo stesso fiato che continueremo a sostenere. Continueremo a fare i salti mortali per fa coincidere orari di lavoro, di famiglia, di casa, di amici, di impegni vari  con quelli del Napoli. Continueremo a macinare chilometri e continueremo a perdere la voce. E continueremo anche a fischiare, se necessario.

Al terzo goal, un tizio che era davanti a noi saluta deluso dicendo: “ A questo punto vado che faccio in tempo ad accompagnare papà per il turno di notte”.

Mi è sembrata la cosa più saggia sentita stasera.

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