Ogni lasciata è persa. Anzi, pareggiata.

La mia giornata di Napoli-Juve comincia con un messaggio di un’amica che, dopo aver detto si ad una mia richiesta di vitale importanza, come può essere trovare un parcheggio al Vomero, aggiunge con chiari riferimenti calcistici: “Questo deve essere un perfect day”.

La mia giornata prosegue con un messaggio di un altro amico, mentre torno da lavoro e sono già in modalità pre-partita che quasi in tono minaccioso mi aggiorna: “Cavani non convocato.” Il perfect day comincia a sfocare un po’. Ma siamo tutti fiduciosi. Pandev prima o poi dovrà resuscitare. Subito penso e condivido con gli amici un’espressione un po’ scurrile per incitare il macedone a fare finalmente la sua parte. Qualcosa che ha a che fare con produzione di aria puzzolente. Fetente per la precisione. Ma sorvoliamo gli istinti camionisti e pensiamo alla partita. Dicevamo, Pandev dovrà pur ricominciare a giocare a calcio. Non siamo andati lontano. E sarà una nota positiva della serata.

Partiamo presto per lo stadio, parcheggiamo l’auto ai soliti campetti, poche persone ancora in fila, clima tranquillo, sciarpe create per l’occasione. Quella con la Juventus è sempre una partita particolare. E non sono d’accordo con chi dice che è un atteggiamento da provinciale. E non sono d’accordo neanche con il concetto che “provinciale è peggio della capitale”, anzi! Quella con la Juventus, comunque, è sempre una partita particolare e la vogliamo vincere. Anzi stravincere, come fatto negli ultimi anni.

Nonostante fossimo quasi i primi ad entrare, il nostro solito spazio sugli spalti è già occupato da scotch, sciarpe, giornali. Un po’ delusi, ma senza fiatare, troviamo un paio di file più su. Molto più su. Poco male. In quella parte di curva ricordiamo di aver visto Napoli-Lazio dell’anno scorso. Tanti goal, tante emozioni e tante lacrime. Più o meno la scena si ripete.

Il pre-partita è un trionfo di cori anti-juve. Alcuni dei nostri si presentano con una maglia che la dice lunga sull’ “anti-juve pensiero” e sul modus vivendi dei bianconeri. Passati da Juventus a Rubentus. E in effetti in qualche occasione anche al San Paolo hanno ricordato i vecchi tempi.

Alla spicciolata arrivano tutti. Siamo tesi e  nervosi, ma concentrati. Siamo sempre più un bel gruppo compatto, siamo sempre più una bella famiglia. Anche se a fine partita avremmo voluto mettere fuori casa e senza chiavi un amico molesto che dopo il pareggio si è trasformato in molestissimo. Ma continueremo a volergli bene come si fa con un figlio ribelle o un padre rompicoglioni.

Ad un certo punto nasce anche il dilemma “coriandoli si, coriandoli no”. Optiamo per “coriandoli forse”. Rimandandoli al primo goal del Pocho. In realtà poi sono volati al terzo nostro. Troppo presto, cazzo. Troppo presto!

Insomma. Ragazzi miei, avrete notato che sto temporeggiando tremendamente pur di evitare di raccontarvi le emozioni e la rabbia di ieri. Potrei dirvi anche che abbiamo dedicato qualche coro a Cigarini che ci ha messo KO il matador. Salvo poi ringraziarlo una volta gioito per la doppietta di Pandev. Potrei dirvi che Quagliarella, con cori e fischi, ha capito presto perché il suo corpo si rifiutava di tornare al San Paolo.  Potrei continuare a dirvi che c’era un gruppo di tifosi bianconeri nel settore ospiti. Merce rara negli utlimi anni. Quando si vince, escono allo scoperto e non si vergognano più di farsi vedere in giro.

E invece noi siamo sempre lì. Qualsiasi cosa ci si giochi, noi ci siamo. Sempre orgogliosi e a testa alta.

Ma è arrivato il momento. È arrivato il momento di dirvelo che dopo un primo tempo in cui abbiamo fatto tutto noi, c’è stato un secondo tempo in cui abbiamo fatto tutto noi. A loro è bastato mettere il centrocampo. A noi è bastato lasciarlo nello spogliatoio. E la partita è andata da sé. Analisi sempliciotta, lo so. Ma sapete che io di analisi di solito non ne faccio. Vi racconto le emozioni dagli spalti. E le sensazioni erano queste.

Primo tempo: noi giochiamo, pressiamo, li impappiniamo, ci procuriamo un rigore, lo segniamo, esultiamo, ci accorgiamo che si deve ripetere per motivi oscuri e soprannaturali, lo ritiriamo, questa volta lo sbagliamo, c’incazziamo. Ricominciamo a giocare, a pressare, a impappinarli, rivediamo Hamsik toccarsi la cresta, esultiamo finalmente e questa volta sul serio. Ricominciamo a giocare, a pressare, a impappinarli come una difesa di ubriachi, segniamo di nuovo. Il Napoli si accorge di Pandev, noi ci accorgiamo che possiamo farcela. Andiamo negli spogliatoi moderatamente tranquilli e sul 2-0.

Secondo tempo: noi restiamo seduti sulle poltroncine comode dello spogliatoio forse pensando di poter rinviare il secondo tempo per le stesse forze soprannaturali che ci hanno fatto ripetere il rigore. Invece loro entrano sprezzanti del pericolo. Pochi minuti e noi lasciamo una prateria alla loro fascia sinistra. Noi non giochiamo, non pressiamo, ci impappiniamo. Loro segnano. Noi temiamo una juve che non molla. Ma noi crediamo nei miracoli e ne vediamo uno sotto la curva A, un Pandev rinato  che si gira in un centimetro quadro e insacca Buffon. Esultiamo di nuovo, per la terza volta. Loro una sola. Siamo in netto vantaggio di esultanza. Ma come ho detto prima, noi non giochiamo più e loro sì. Ci facciamo segnare altre due volte in modo uguale, facciamo diventare Pepe la controfigura azzoppata di Messi con un po’ di rimpalli favorevoli, ma caparbi e cattivi. Caparbietà e cattiveria agonistica, quella che abbiamo lasciato negli spogliatoi chissà a far cosa insieme. Spero si siano divertite. Loro. Noi non tanto. Pareggiamo con il sapore di una sconfitta. Prendiamo un punto che francamente non serve a molto. Ne regaliamo un altro al peggior nemico.

Loro sono forti, senza dubbio alcuno. Noi siamo stanchi, con qualche dubbio. Soprattutto in difesa.

Invece ho una certezza: stonati i cori dei bianconeri dal settore ospiti che cantavano a fine partita “Oj vita mia”. Ma non perché non ci piaccia essere presi in giro. La nostra autoironia è sicuramente proverbiale. Non per questo. Ma perché completamente fuori luogo. La verità è che noi sappiamo come si ama una squadra come la propria vita, con il cuore,  come il primo amore. Il primo e ultimo amore. Loro possono solo provare a copiare una canzone.

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