La lezione del Camp Nou

Ieri sera al Camp Nou sono andate di scena due lezioni di calcio. Quella che il Barcellona ha inflitto all’Arsenal ma soprattutto quella che l’Arsenal, nella persona di Arsene Wenger, ha inflitto a se stesso, dimostrando all’intero panorama calcistico internazionale come non debba essere affrontata l’armata di Guardiola.
Non più tardi di dodici mesi fa queste due squadre si incontrarono nei quarti di finale della scorsa Champions League. All’Emirates finì 2-2. Più per demeriti del Barcellona che per effettivi meriti dell’Arsenal che approfittò di una serie di episodi favorevoli e del congenito narcisismo blaugrana.
Due settimane fa è successa la stessa cosa. Barcellona padrone delle operazioni che spreca l’impossibile e finisce per perdere una partità già vinta.

Nel mezzo l’umilazione del 6 aprile scorso. Nonostante il vantaggio ottenuto grazie a Bendtner, un Arsenal tatticamente scriteriato prese quattro gol, giocando con una difesa altissima,  esponendosi costantemente ai tagli degli attaccanti e agli inserimenti dei “terzini” catalani.
Ieri sera stesso copione. Molti analisti hanno parlato a sproposito di “Arsenal snaturato”, di “catenaccio”. Ma una squadra che difende con la linea difensiva distante 35 metri dalla propria porta vuole giocarsela a viso aperto, altrochè.
Il catenaccio, al massimo, è stato indotto dal Barcellona che ha costretto i gunners nella propria metacampo per tutti i 90 minuti, determinando il paradosso di una difesa a 6 con Rosicky e Nasri terzini. Il tutto grazie al segreto di Pulcinella della squadra blaugrana: il pressing superoffensivo e perfettamente coordinato che consente agli uomini di Guardiola di recuperare palla nella metacampo avversaria e di non far mai rifiatare la difesa.

Le ultime edizioni della Champions League hanno dimostrato che l’unico modo per uscire indenni, o quanto meno limitare i danni, dal Camp Nou è “non giocare”. Difendere corti e stretti con la linea difensiva all’altezza dell’area di rigore e quella di centrocampo dieci metri più avanti.
In questo modo il Chelsea di Hiddink e l’Inter di Mourinho hanno contenuto la marea catalana.
Wenger invece ha continuato dritto per la sua strada, nonostante le scoppole, le umilazioni (nel gioco, più che nel punteggio); cavalcando l’utopia di un calcio offensivo da proporre sempre, comunque, ad ogni costo.
Un’idea di calcio che negli ultimi anni ha fruttato tanti applausi ma la “bellezza” di zero tituli (cit.).

Fabio Piscopo

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