Il Napoli ed i primi approcci verso i Sudamericani

napoli sudamericaniNapoli Sudamericani \ Correva la stagione 1947-’48 ed in Napoli aveva l’obbligo morale di andare alla scoperta di giovani talenti in quella terra lontana chiamata genericamente Sudamerica. Un miraggio, un segnale di crescita, un modo deciso e ambizioso di portare il nome della città verso alti borghi. Fu così che la società, nella figura del presidente Pasquale Russo, industriale della zona di Solofra, diede incarico al tecnico azzurro Raffaele Sansone, sudamericano d’origine, ed all’anziano seppur indispensabile Andreolo, difensore partenopeo arcigno e mai domo, in quelle settimane in vacanza in quelle zone, di visionare un nutrito gruppo di giovani promesse da poter valutare per la stagione che s’apprestava a cominciare.

Fu così che al molo Beverello sbarcarono sei sudamericani affamati ed in cerca di sistemazione. Callarga e Lopez trovarono modeste sistemazioni in squadre minori, Rodriguez divenne una pedina importante della Salernitana, mentre a Napoli vennero tesserati i seguenti tre elementi: Candhales, terzino e, quando necessario, mediano, avanti con l’età (36 anni, anche se fu presentato alla società con un passaporto che gliene attribuiva 29..leggerezze dei tempi che furono) ma dotato di classe eccelsa, vide nel suo limite proprio la mancanza di freschezza atletica che lo avrebbe fatto ricordare in maniera più incisiva nelle sorti di quelle stagioni, Cerilla, azzardo dell’improvvisato scouting partenopeo, mediano rozzo e privo del benché minimo fondamentale calcistico adeguato, lontano anni luce dai giocatori che anche le squadre meno importanti si pavoneggiavano di avere, e l’ultimo fu un certo Roberto La Paz, colored uruguaiano, vero e proprio funambolo con la palla al piede, ma dall’andatura dinoccolata ed ingenuo in fase tattica, era in grado di sfoggiare giocate d’alta scuola, ma si perdeva nei passaggi più semplici.

RobertoLaPazProprio quest’ultimo, quasi per un’affezione dovuta a quell’aria sbarazzina e sprovveduta, lo fece divenire un beniamino del pubblico, quasi più divertito dai suoi numeri da circo che dalla sua reale efficacia. Come spesso è capitato a chi è stato tanto amato, la fama ha cominciato a dargli alla testa, e così ebbero inizio le prime stranezze da divo, con eccessi nel privato, contornati da una vita non proprio da atleta. Si racconta che quando la classifica cominciò a farsi preoccupante (quell’anno il Napoli retrocederà per la seconda volta nella storia) la società decise di tenere sotto controllo i calciatori che componevano la rosa. Addirittura gli scapoli furono dirottati in una palazzina del Vomero e, quasi come fossero nelle camerate militari, furono costretti a vivere tutti assieme. La cosa non piacque per nulla a La Paz che, in barba alle regole restrittive imposte dai dirigenti, si calava perennemente con una corda da una finestra per proseguire la sua vita, diciamo così, da divo hollywoodiano. Quando s’era fatta ora di rientrare, con lo stesso metodo, era capace di farsi trovare al suo posto, senza incappare in sanzioni dolorose. Fu ceduto nel ’50 all’Olimpique di Marsiglia dopo poche apparizioni in maglia azzurra e con un magro bottino di sei reti, ma fu tanta la simpatia che destò quando riusciva a scendere in campo anche solo per pochi minuti che è rimasto nel cuore dei vecchi tifosi azzurri che possono ancora ricordare le sue gesta, magari non propriamente calcistiche.Questi furono i primi, macchinosi e poco incisivi passi verso il mondo calcistico sudamericano, che già da allora si confermava essere un’autentica fucina di probabili campioni, ma anche di altrettanti bidoni, con, nel mezzo, personaggi estrosi come lo fu Roberto La Paz.

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