Chi dimentica è complice

Mi ricordo, sì, io mi ricordo. Ci perdonerà Marcello Mastroianni se prendiamo in prestito il titolo di un suo celebre documentario sull’importanza della memoria. “La memoria va alimentata. La memoria di qualsiasi cosa. […] Nel film “Blade runner” il replicante soffre in maniera struggente, perché in quanto replicante non ha un passato, quindi non ha una memoria. Un canto indiano recita: ‘Tutto quello che hai visto, ricordalo. Perché tutto quello che dimentichi, ritorna a volare nel vento'”. Basterebbero queste parole per far comprendere l’importanza di ricordare.

Oggi è una giornata particolare. Il 3 maggio del 2014 il Napoli si apprestava a giocare la finale di Coppa Italia contro la Fiorentina. Era una giornata bellissima a Roma, lo ricordo come fosse ieri. Il primo collegamento con la tv con la quale collaboro lo feci intorno a mezzogiorno, dall’esterno dello stadio Olimpico. I primi tifosi di Napoli e Fiorentina erano già sul posto. Mischiati tra loro, senza problemi. Nulla faceva pensare alla tragedia che sarebbe avvenuta di lì a qualche ora. Si respirava un’atmosfera di festa, come è giusto che sia quando c’è un avvenimento del genere.

Nel tardo pomeriggio, più o meno intorno alle 19, le prime frastagliate notizie. Ricordo ancora lo sguardo nel vuoto del collega Nello Odierna, che per primo mi comunicò la notizia, irrompendo in diretta davanti alle telecamere: “È tutto finito, sono spuntate le pistole nel calcio. Hanno sparato addosso ai tifosi del Napoli”. Un brivido percorse la mia schiena. Iniziò a serpeggiare il panico tra i sostenitori azzurri che affollavano il Foro Italico in attesa di entrare allo stadio. Cariche della polizia a tre metri da noi, che raccontavamo tutto in diretta, e ci sembrava di essere reporter di guerra. Il caos. La famigerata, inesistente, trattativa tra Hamsik e i capi tifosi azzurri, orchestrata ad arte da chi ha il solito interesse a gettare fango sui napoletani. In tribuna stampa, all’improvviso, scomparve il segnale del wi fi. Eravamo all’oscuro di tutto. 

A quel punto, feci l’unica cosa sensata che un giornalista avrebbe potuto fare. Cercare la notizia alla fonte. Chiamai il compianto Pasquale D’Angelo, storico capo della Curva B. “Raccontami che sta succedendo, non farmi dire stronzate in televisione”, gli chiesi. “È semplice – rispose lui -. Noi ultras ce ne siamo andati, abbiamo lasciato lo stadio, per noi la partita non conta più niente. Qualcuno di noi sta tornando a Napoli, qualcun altro sta andando al Gemelli. Lo hanno portato lì“. “Chi, Pasquale? Chi hanno portato lì?”. Una domanda retorica la mia, la risposta già la conoscevo. “Ciro, un ragazzo che è stato ferito da un colpo di pistola da parte dei romanisti”. La telefonata si concluse così, senza nemmeno salutarci. Era calato il gelo.

Da quel momento iniziò una lunga agonia. Quella che poi portò Ciro a morire, dopo 50, lunghi giorni, in cui si alternarono notizie buone e meno buone sulle sue condizioni. Ricordo l’umanità che si elevò in quei frangenti. Tifosi di tante squadre, anche storicamente “nemici” dei sostenitori napoletani, che offrirono il proprio aiuto, quotidiano, alla famiglia di Ciro. Chi un piatto di pasta, chi un abbraccio. Ricordo le lunghe telefonate con l’Avvocato Pisani, il legale che prese in carica il caso. Fino all’ultima, quel maledetto giorno in cui Ciro ci lasciò.

Una volta, parlando con mamma Antonella, mi disse: “Ora abbiamo un compito molto importante, tutti. Dobbiamo fare in modo che Ciro non venga mai dimenticato”. Queste parole rimbombano nella mia mente come un macigno. L’importanza della memoria. L’importanza di far capire a chi verrà dopo di noi che no, non si può morire così. Che la violenza non è la strada. Banalità trite e ritrite, direte. E allora state già dimenticando. E fareste bene a ricordarlo invece: chi dimentica, è complice.

Vincenzo Balzano

Twitter: @VinBalzano

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