Il Mattino – Lo splendido ricordo di Maurizio de Giovanni: “I nostri cuori e la sua chitarra…”

 

Arriva di notte, la notizia. Quelle subdole fanno così, ti prendono alle spalle: ti svegli e le trovi già là, a fissarti maligne attraverso il sonno, incolpandoti di non essere stato attento e sveglio quando hanno affondato la lama, riempiendo di dolore gli spazi riservati a tutto il resto. Arriva di notte, e ti fa trovare un cratere immenso dove c’era qualcosa di enorme che davi per scontato, qualcosa che faceva talmente parte di te che non sai come farai, adesso che quel qualcosa non c’è più. Arriva di notte, la notizia: e tu hai l’impressione dolorosa che molto ci sia stato di irrisolto, molto ancora da fare, da sorridere, da guardare. Da ascoltare. Al posto di quel molto, invece, non rimane niente. Solo il vuoto immenso, e un silenzio che pesa come un macigno sui ricordi e sulle emozioni mai dimenticate. Ti vesti ed esci, perché senti il bisogno della città. Come fosse un familiare superstite, qualcuno che è rimasto da abbracciare e nel quale specchiare i sentimenti, qualcuno che condivida la sofferenza della perdita. E la città effettivamente condivide, monca e mutilata com’è rimasta, negli occhi tristi e spaventati dei comici guerrieri che ogni giorno affrontano la giungla. Dotto’, non è cominciato bene, quest’anno. Proprio no. E tu cammini, un po’ come un automa, cercando un conforto che non ti sai dare. Fu così quando fu la volta di Massimo, e avemmo tutti la stessa impressione, come se fosse andato via un parente troppo poco frequentato, un amico intimo d’infanzia e gioventù di cui conforta anche solo avere il numero di telefono, la consapevolezza di poterlo cercare e trovare perché lui c’è sempre, è là, e sai che con un solo, semplice abbraccio sarà come non essersi separati mai.

E invece adesso non c’è più. Certo, rimane il suono. Rimane nell’aria, in mezzo alle parole, in quel timbro speciale che così spesso riconosciamo in giro per le strade. Un timbro che, se chiudiamo gli occhi, vibra nei gesti che, lo sappiamo, accompagnano le parole. Il suono rimane, e rimarrà nel tempo e nello spazio perché è il suono nostro, quello di questo posto assurdo, azzurro e polifonico dove abbiamo respirato la prima volta. E camminando a vanvera, portato avanti dalla tristezza, pensi che quello che importa è proprio il primo respiro, non l’ultimo. Perché è il primo respiro che ti porta dentro gli odori e i sapori che ti imprimono i sentimenti sul cuore come un timbro indelebile, e non importa poi dove vai a morire, perché è qui che hai sentito per la prima volta il suono. Il suono rimane. Quello non lo perderemo, e non lo perderanno quelli che resteranno quando andremo via anche noi. Ma insopportabile sull’anima grava il peso della consapevolezza del suono nuovo che non avremo, del ritmo lento e avvolgente al quale non sorrideremo più. Camminando e specchiando il dolore in quello della città, cerchiamo di ricordare; e scopriamo quanto amore sia stato figlio di quelle canzoni, e quale sia stato il battito al quale i nostri cuori si sono accordati con le corde della sua chitarra.

Quel bacio, quel film, quel ballo, quel falò sulla spiaggia; e quelle ore di autostrada, quei concerti caldissimi e umidi, perfino quell’attesa sugli scomodi seggiolini dello stadio. Perché il suono quando è come quello suo è eterno, e di generazione in generazione assume nuovi significati senza mai perdere se stesso. Camminando nel dolore tuo e in quello altrui, ricordi le volte che di fronte al nuovo album hai scosso la testa mostrando una supponente delusione da conoscitore della prima ora, no, non è più lo stesso, è cambiato: per poi scoprire che quelle nuove canzoni si insinuavano sotto la pelle dell’anima proprio come le vecchie, perché sì, era cambiato, ma era cambiato esattamente come e ricambiato tu, nella stessa direzione e alla stessa velocità, e quindi ti accompagnava ancora, colonna sonora della tua stessa anima.

E a te piaceva ‘o blues, e attraverso quel suono sapevi un’altra volta quello che eri, un nero d’Italia chiassoso, sovrabbondante nei modi, facile a piangere e a ridere, e col battito costante della musica del mare di notte in corpo. Lo sapevi perché te lo spiegava lui, l’amico col cuore di carta, sottile e fragilissimo, ma era una carta sulla quale erano scritte parole e note e purissime emozioni. Camminando per la città orfana ti ritrovi a fischiettare, o a cantare a mezza voce. E straziato dal dolore sorridi al bordo del cratere che hai dentro, perché da quel cratere che nessuno potrà riempire viene la musica della tua vita. E speri che ci sia qualcuno dall’altra parte che possa, a nome tuo, ringraziarlo per la gioia che ti ha dato e per i ricordi che nessuno ti toglierà mai più.

Fonte: Maurizio de Giovanni per Il Mattino

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