Tatuaggi e coltelli, il codice degli ultrà

Sono più di settemila, divisi fra 14 gruppi, tutti ultras napoletani, pronti a incontrarsi o scontrarsi in curva come in strada. Si mimetizzano con sciarpe e cappelli, si riconoscono attraverso i tatuaggi, si spartiscono gli spalti a seconda del rione di provenienza e della sigla alla quale appartengono, si muovono sempre in branco e si distinguono per i cori e spesso anche per la violenza. «Molti sono ancora convinti cultori della logica dello “scontro” tra opposte tifoserie che caratterizza la mentalità dei più pericolosi gruppi ultras italiani ed esteri», spiegarono gli inquirenti in occasione del blitz della Digos del 16 febbraio scorso nell’ambito della più recente indagine sul tifo violento. Filone di un’inchiesta che ancora continua, perché il fenomeno della violenza negli stadi e dei tentativi di condizionare scelte societarie o organizzative nel mondo del calcio non è ancora estinto. Tutt’altro.
«Niss» (Niente incontri solo scontri) e «Bronx 1999» sono due delle sigle di gruppi ultras finiti recentemente all’attenzione degli inquirenti, ma il panorama è vasto. Le indagini hanno svelato la sostanziale unità di organizzazione e di intenti che accomuna gli ultras napoletani. Attraverso intercettazioni, attività di pedinamento, perquisizioni e controlli, le forze dell’ordine hanno raccolto molti elementi sul modus operandi, le strategie, l’organizzazione dei gruppi del tifo violento: pianificano nel dettaglio i loro raid, hanno regole ferree e un sistema di autofinanziamento. All’interno di ciascun sodalizio, è prevista assistenza legale per i soggetti che incorrono in procedimenti penali legati a fatti cosiddetti «da stadio» e la disobbedienza al capo è punita con l’espulsione dal gruppo e la perdita del posto in curva. Catene, coltelli, bastoni sono le loro armi, sciarpe e stendardi i loro trofei. Spesso tentano di condizionare le scelte societarie, come – secondo quanto emerso dalle inchieste – in occasione del rinnovo dei contratti dei calciatori.
Curve e camorra è un altro filone. Più di un pentito ha svelato che la divisione delle tifoserie sugli spalti ricalca quella dei clan nei quartieri della città. «Non tutti gli ultras sono camorristi ma tra gli ultras ci sono camorristi», hanno sottolineato i magistrati, spiegando quanto fragili siano le barriere che separano tesserati della squadra dal mondo degli ultras o presunti tali. E in un fascicolo della Procura c’è finito anche l’episodio della presenza a bordo campo, durante Napoli-Parma del 5 aprile 2010, di Antonio Lo Russo, il figlio latitante dell’ex boss di Miano.

Fonte: Il Mattino

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