Razzismo e alibi, vietato incontrarsi

Si è già detto, troppo e mai abbastanza, troppo e – spesso – male. Inter-Napoli, la partita che diventa cronaca, la cronaca che diventa questione di Stato mentre si consuma la tragedia. Si è detto tanto, dicevamo, a tratti estremizzando e a tratti sminuendo, a tratti criticando e a tratti strumentalizzando. Eppure, due giorni dopo, si continua a parlare di Inter-Napoli e, a costo di risultare impopolare, anche il sottoscritto dice la sua.

4 feriti e un morto non valgono quanto 90 minuti di razzismo

La prima riflessione, maliziosa ma spontanea, è sul perché ci si stia focalizzando in maniera così decisa su quanto accaduto nei 90 minuti di gara e non sui fatti del pre-partita. Lungi da me fare il bastian contrario, ma il decadimento del Paese nel primo boxing day italiano e milanese si è manifestato in ben tre occasioni: pre-partita, cori contro Napoli e ululati contro Koulibaly. E, scusate il pragmatismo, ma l’agguato con conseguente morte di un tifoso prima del match è qualcosa che dovrebbe creare maggiore scalpore dei soliti tristi e indecenti cori intonati dagli altrettanto soliti tifosotti frustrati riempi-curve. Perché un morto, anche se con precedenti penali e presunte tendenze neofasciste, resta comunque un morto. Guai a fare distinzioni, altrimenti i razzisti siamo noi.

Qualcuno potrebbe obiettare che il fenomeno del razzismo è una piaga sociale che, alle soglie del 2019, avrebbe dovuto essere un qualcosa di estirpato ed estinto già da decenni e non una manifestazione di un ritorno di fiamma di tempi lontani cronologicamente ma tristemente vicini moralmente. Giustissimo, perché è un dovere etico e morale di una popolazione civile stigmatizzare certi atteggiamenti e certe predisposizioni mentali che nulla hanno a che fare con una società del terzo millennio, o per lo meno non dovrebbero.

È un sacrosanto diritto chiedere l’interruzione della partita se tali inqualificabili cori persistono ed è un dovere altrettanto sacrosanto per l’arbitro rispettare il protocollo. Questi ultimi punti sono già stati affrontati, in versioni più o meno moderate, e risultano pienamente condivisibili. Ora però è necessario soffermarsi sull’evoluzione, purtroppo strumentalizzata, di questi argomenti. L’opinione assolutamente personale, come d’altronde il resto di queste righe, è che l’unica soluzione al razzismo sia non prestare il fianco all’avversario, non scoprire le proprie debolezze, anzi dimostrare di essere più forti – qualora qualcuno ne dubitasse – di cori e insulti vari dettati dall’inciviltà. Paradossalmente, per quanto sia giusto condannare, è ancora più efficace non subire e privare il nemico della sua unica arma, un’arma che risponde sempre alla mancanza di creatività e sfocia nell’insulto becero ed elementare: il “caro” vecchio razzismo.

Ne è esempio vincente il caso di Samuel Eto’o, che nel 2006 contro il Real Saragozza subì un lancio di banane e, segnando, esultò imitando una scimmia e facendo scacco matto ai poveri tifosi avversari, schiavi della propria ignoranza. Come lui anche Dani Alves che, sempre ai tempi del Barcellona, una banana addirittura la mangiò in campo. Chiaro, non è facile e ognuno reagisce a modo suo, ma l’unico modo per sconfiggere il razzismo è depotenziarlo, mostrare che davvero è sciocco, inutile e che invece di indebolire, rafforza il destinatario. Chapeau a chi ci riesce, per tutti gli altri – come Koulibaly – tanta comprensione.

Una maschera chiamata razzismo

Prima ancora di interrogarsi sul perché avvengano ancora episodi di razzismo e sul come fermarli, è di primaria importanza chiedersi se questo sia davvero razzismo. È razzismo se una tifoseria di una squadra che ha nel DNA il concetto di essere “fratelli del mondo” e ha attualmente in rosa un giocatore napoletano (D’Ambrosio) e due di colore (Asamoah e Keita)? Se fosse razzismo, certi cori e certi ululati dovrebbero manifestarsi anche quando i propri giocatori toccano palla, cosa che invece non accade. Non è razzismo, è cattiveria, è ignoranza, è inciviltà, ma il razzismo è ben altra cosa. Il tifoso al tempo stesso esalta la sua squadra ed attacca quella avversaria attraverso la voce, l’unico strumento a sua disposizione durante una partita. Ma come si fa ad attaccare davvero l’avversario tanto da condizionarne la prestazione? Lo si deve fare nel modo più subdolo possibile, nel più scorretto, quello che andrà a colpire il punto debole, quello che – alla lunga – risulta insopportabile.

Che sia il “-39” rivolto ai tifosi della Juventus per ricordare la strage dell’Heysel, che siano i riferimenti a Superga rivolti ai tifosi del Torino, che sia il coro “Lavali col fuoco” contro i tifosi del Napoli o gli ululati contro i giocatori di colore, la matrice è sempre la stessa e il razzismo per questi ultimi due casi è solo una maschera. Ciò che conta non è il colore della pelle ma quello della maglia, è questo il vero problema. E si risolverà soltanto quando si sarà compreso e si smetterà di abbaiare all’albero sbagliato. Risulta dunque anche insufficiente e ipocrita chiudere uno stadio e credere di aver risolto il problema: se i ladri svaligiano una casa, il proprietario non chiude l’abitazione ma fa arrestare i trasgressori e mette l’antifurto. Chiudere anziché migliorare la sicurezza e aumentare le pene ai singoli individui (perché di individui si tratta e non c’è nulla di più errato della generalizzazione) non è nient’altro che un modo semplice per fare la voce grossa e pulirsi la coscienza fino ai prossimi eventi. Insomma, il classico modus operandi all’italiana.

L’errata gestione mediatica

Torniamo da dove eravamo partiti, ovvero alla strumentalizzazione a tratti oscena di quella che è una tematica seria e non un ipocrita festival del perbenismo. Oltre a quelli che hanno sfruttato l’hashtag #siamotuttikoulibaly per una mera questione pubblicitaria cavalcando l’onda emotiva del trend topic, ci sono quelli che – probabilmente accecati dal tifo – non hanno saputo dare una lettura lucida agli eventi di San Siro. Perché la condizione necessaria e sufficiente affinché il tema non perda di credibilità è che questo non corrisponda alla ricerca di un alibi. Si cerca un alibi chiedendo l’annullamento della gara e addirittura la vittoria a tavolino per il Napoli, per dirne una, e lo si fa anche quando si parla più degli spalti che del campo. Va detto: non è stato il miglior Napoli della stagione, anzi, tutt’altro. Ma i cori contro la città e contro Koulibaly hanno condizionato la gara? Assolutamente sì! La partita è stata condizionata dal punto di vista nervoso e a pagarne le conseguenze è stato il povero Kalidou, che non ha retto e ha commesso un’ingenuità: applaudire sarcasticamente l’arbitro, non il pubblico come in tanti hanno cercato di sviare. Cartellino rosso inevitabile, così come quello per Lorenzo Insigne che ha facilmente perso la testa.

Dunque match condizionato sì, falsato no. Perché non è la prima volta che si ripete questo triste e avvilente teatro dell’insulto a sfondo pseudo-razzista e Napoli lo sa, Koulibaly lo sa. Lo hanno subito mille volte e lo hanno ignorato altrettante, proprio come quello Juve-Napoli di aprile della scorsa stagione, quando Kalidou zittì ogni fischio bianconero trasformandolo in boato azzurro. Il caso mediatico fu poco evidenziato per lasciare invece spazio all’impresa degli uomini di Sarri. Si parlò, finalmente, di campo e solo di quello. Per onestà intellettuale è dunque doveroso ammettere la sconfitta sul campo e, parallelamente, condannare i cori delle tribune ma non si devono mischiare le due cose o per lo meno non farlo in maniera così netta, così ipocrita, così vittimista. Così facendo viene meno la legittimità e la credibilità stessa dell’accusa se a questa viene anteposta la scusante per una partita andata male. Perché al razzismo – o come preferite chiamarlo – si reagisce, non si subisce, e con la sconfitta si fa lo stesso. Riempirsi la bocca di retorica consequenzialmente alle prestazioni sportive è, invece, una caduta di stile che il Napoli non può permettersi di fare. Così è se vi pare.

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