VIDEO – Oggi, 31 anni fa: il gol del secolo firmato Diego Armando Maradona

Oggi, 31 anni fa, Diego Armando Maradona si rendeva protagonista di quello che viene giustamente considerato il gol più bello del secolo.

Di seguito vi proponiamo un estratto dal libro “Maradona – Il pibe de oro”, scritto da Raffaele Nappi.

“Mataremos a los ingleses, a los ingleses mataremos”. No, non è un clima leggiadro quello con cui ci si avvicina alla partita di domenica. Giugno, Città del Messico, 1986. I tifosi del Boca arrivati qui sembrano piuttosto decisi quando si tratta di esprimere la propria opinione sull’ultimo Quarto di finale del turno. In tabellone spicca Argentina-Inghilterra, la sfida imperiale, la rivincita della guerra delle Falklands. No, non è un clima rilassato quello che si respira in città. Un terremoto, appena un anno fa, ha sconquassato l’intero Paese: le strutture sono traballanti, le infrastrutture impreparate. Un brulichio di fondo, la voce della povertà e degli stenti, delle privazioni e dell’indigenza rischieremmo di dire, spira su quelli che dovevano essere i Mondiali della rinascita per il Sudamerica. Affidati alla Colombia prima e al Messico poi. L’Argentina si è presentata con grandi speranze: Passerella non c’è, c’è Maradona. Il girone si è rivelato quasi una formalità, nonostante la presenza dei Campioni in carica italiani. Gli ottavi di finale contro l’Uruguay sono filati lisci: 1-0. Ma poteva andare molto peggio per gli avversari. Ora tocca agli inglesi. La Storia, insomma, ci ha rimesso lo zampino: perché l’ombra delle Falklands non ha mai smesso di allungarsi. Perché se parli di Malvinas dalle parti di Buenos Aires gli si ingrandiscono ancora gli occhi tanto così. Perché due potenze, come è solito appellare Paesi di buona economia, crescita, solidità economica finanziaria ed istituzionale, sono riuscite ad avvilupparsi in una guerra per uno sconosciuto arcipelago alla fine del Pacifico, per non dire alla fine del globo, che ha lasciato sul campo più di 1.000 soldaditos e quasi 300 inglesi.

Il Foreign Officer inglese ha chiesto esplicitamente al governo messicano speciali misure di sicurezza per la sfida di domenica. Dalle parti di Londra è ripartita quella conosciuta come la ‘febbre argentina’: lo chiamano Mendez, Maradona. Come il generale baffuto, goffo e un po’ arruffone che comandò le truppe argentine 4 anni prima. Con pessimi risultati. ‘365 a 12’ scrissero i tabloid: 365 i marinai sudamericani morti del vecchio incrociatore argentino Belgrano, 12, appena, le perdite inglesi.
Stavolta è tutto diverso. O ancora tutto terribilmente uguale. “It’s war, seniòr” ha titolato il Sun in settimana. “Non perdetevi la seconda guerra delle Malvinas”, gli hanno fatto eco colleghi titolisti oltreoceano. Alcuni senatori peronisti hanno chiesto formalmente al presidente della Repubblica Alfonsin di ritirare la squadra per impedire di affrontare gli inglesi: “No, non si possono avere relazioni di alcun tipo con loro”, esclamano. “Dobbiamo giocare con il pallone, mica col fucile” ribatte Diego, più che mai pronto a scendere in campo. E la partita arriva. Domenica 22 giugno 1986, stadio Azteca. Posti: 114.000. Agenti schierati: 20.000, uno ogni 6 spettatori. Mezzogiorno. Mezzogiorno di fuoco, diremmo. Perché da queste parti l’aria a tratti diventa irrespirabile. Sarà l’altura. Saranno le scosse di terremoto che ogni giorno, piccole, ma si sentono. Sarà che si scontrano per l’ennesima volta padri e figli, antichi conoscenti, vecchi amici

Erano 10.000 gli inglesi a Buenos Aires nel 1800. E come in molte altre parti del mondo, furono gli inglesi ad esportarlo, il calcio. Chiedetelo ad Alexander Watson Hutton, padre del calcio argentino, che nel 1891 fondò l’Association Argentine Football League nella sua scuola di inglese in città. Chiedetelo a Osvaldo Ardiles, centrocampista albiceleste, che 4 anni prima, quel 14 giugno del 1982, tirava calci ad un pallone, in Spagna, all’esordio Mundial, pensando al fratello pilota il cui aereo era stato abbattuto 48 ore prima dalla contraerea britannica. Chiedetelo, immaginatevi, chi quel giorno c’era su quelle gradinate stracolme, a strapiombo, in quella “succursal de manicomio” che fu lo stadio Azteca. Chi ha assistito dal vivo alla Creazione. Al furto del secolo. Al mito. Chi ha gioito e chi ha pianto. Chi ha rivendicato e chi ha rimostrato. Chi ha vinto e chi ha perso. Perché Diego quel giorno diventa leggenda. Si trasforma in aquilone cosmico. Raccoglie sulle spalle l’eredità del riscatto di un popolo fatto da poveri e bistrattati, argentini e sudamericani, impiegati e operai. Ricompatta sotto la bandiera della speranza la compagine dei sognatori. È l’una e cinque minuti, quando il pungo infila Shilton. È l’una e otto minuti quando l’aquilone si fa cosmico.

“Ho due sogni: vestire la maglia della nazionale e giocare il Mondiali di Calcio”, raccontò Maradona al microfono di Pippo Mancera, durante il rotocalco della Tv di stato ATC, in quella che fu la sua prima intervista davanti ad una telecamera. Dopo aver palleggiato, s’intende. Dategli tempo: quel ragazzino è uno che le promesse le mantiene. L’appuntamento con la Storia allo stadio Azteca arriva esattamente dieci anni dopo. Dieci anni dopo la prima convocazione di Diego nella nazionale argentina. Dieci anni dopo l’esordio con la nazionale Under-20 (titolo vinto in Giappone). Dieci anni dopo la clamorosa esclusione di mister Cesar Luis Menotti, ct argentino, che pur guidò la nazionale albiceleste alla prima vittoria della sua storia, in patria, in un clima che definire nazionalista è riduttivo. Diego fu escluso a 10 giorni dall’inizio della competizione. “Era troppo giovane”, si rifugiò nelle giustificazioni Menotti. Pure lui avrà modo di ricredersi. Maledetto.

Fa caldo all’Azteca. L’altura si sente, l’afa pure. Gli inglesi sono nella classica divisa bianca. Gli argentini hanno dovuto fare i salti mortali per vestire di blu. Ci ha pensato Ruben Moschella, membro dello staff tecnico: è stato mandato di corsa in un magazzino del centro città. La Federazione Argentina ha spedito qui solo un set di colore scuro, usato contro l’Uruguay. Non resta che comprarne altre, forse manco originali, stirare i numeri, appiccicarli a mano e consegnarle ai ragazzi.

È l’8’ del secondo tempo a Città del Messico. Il clima è infuocato. La maggioranza dei tifosi argentini è già in festa: l’arbitro non ha visto il pugno beffardo con cui Diego ha spinto una palla vagante in rete, elevandosi in contemporanea con il buon Shilton. Lui, il portiere inglese, ha visto tutto. Sa di essere dalla parte del giusto: si prodiga in proteste sconfinate. Per poi tornare mesto tra i pali: è stata la corsa di Maradona subito dopo il gol, come a decretare la lealtà del gesto atletico, ad ingannare il direttore di gara. 1-0 e palla al centro. Argentina-Inghilterra è l’unico scontro in cui si sfidano due nazionali già campioni del mondo. L’estremo difensore inglese Peter Shilton ha raccolto la palla in fondo al sacco in una sola occasione prima di questa sfida. Le squadre britanniche possono cambiare gli schemi, ma non l’idea sedimentata dell’assoluto rifiuto di una marcatura a uomo: sarebbe un’ammissione di inferiorità. Si marca a zona, ragazzi. Non c’è nulla poi che fa arrabbiare gli inglesi come l’esser presi in giro: come osa quell’uomo tordo e sgraziato, con percettibili rotoli di lardo lungo i fianchi, prendersi gioco di loro, atleti, calciatori e conquistatori infallibili?

Il torero, dicono, infligge il colpo della misericordia nell’ora della verità. Il danzatore di tango, raccontano, si esprime con movimenti bellicosi. Il Gol del Secolo nasce così. Da un passaggio svogliato di Enrique, mediano e gregario con tanto cuore e sacrificio. Palla a Maradona, metri dalla porta 52. È lì che prende vita una carambola a tratti infinita, un lungo istante di meraviglia. Una magia. Diego realizza giravolte, finte e controfinte. È impettito. Ha la palla tra i piedi, la testa alta e la piena consapevolezza di tutto quello che gli sta succedendo intorno. I superpoteri, dicono, sono fatti più o meno così. Il Pibe salta in sequenza gli avversari, prima due, poi uno, un altro, ta-ta-ta-ta. Alcuni lo rincorrono. Altri si arrestano, mani sulle ginocchia ad ammirare il capolavoro. Fenwick, l’ultimo dei difensori, ci prova a stopparlo con una scivolata da dietro. Lo colpisce, lui cade a terra. Ma è inutile. Il Pibe davanti alla porta ha il tempo e lo spazio di ricordare lo stesso gesto atletico, nella stessa partita, sette anni prima. “Dovevi scartare pure il portiere!”, lo aveva ammonito El Turco, suo fratello, dopo un’azione nell’amichevole proprio contro l’Inghilterra: serpentina furibonda e pallone sul secondo palo, a lato.

Di poco. Stavolta Diego ci ripensa. L’ultimo tocco è una beffa, l’ennesima, a Peter Shilton, disperato, in uscita folle. Virata sulla destra e tocco di sinistro, a porta oramai sguarnita. E poi via, di corsa, a festeggiare. Come un matto. Come in uno stadio di matti. Dicono che pure gli inglesi, furenti dopo il gol di mano di 180 secondi prima, cominciarono ad applaudirlo. Venti secondi consecutivi di stupore. Venti secondi di applausi, come si dice?, a scena aperta. Come a teatro, come all’opera, come quando hai visto un miracolo. La galoppata degli 11 tocchi è compiuta: 52 metri percorsi in 10 secondi. Leviamoci il cappello, signori.

“Da che pianeta sei arrivato per lasciare sul tuo cammino tutti quegli inglesi? – grida con quella sua stramaledetta voce baritonale Hugo Victor Morales, commentatore uruguayano innamorato di Diego, che sugli spalti dell’Azteca vive uno dei momenti più strabilianti della sua vita – Questa è la giocata migliore di tutti i tempi! Aquilone cosmico – continua – Diegoooool, Diegooooooool. Dios santo, viva el futbol!”. Piange Morales, e piange tutta l’Argentina. Il ‘barrilete cosmico’ (l’aquilone di cui sopra) è tornato a volare, ha superato i confini del cielo. Maradona ha compiuto la sua missione per conto di Dio.
“Che imbroglio!” titolerà l’indomani il Daly Mirror a caratteri cubitali. I bookmakers britannici rimborseranno le scommesse a tutti coloro avevano pronosticato l’1-1 finale, versando 23 milioni di lire. Persino il primo ministro Margaret Thatcher, scriveranno i politologi, perderà consensi in una nazione devastata dalle picconate di Diego. A Trafalgar Square scenderanno in piazza alcuni giovani al grido di “England, England”, issando sulla statua di Nelson la Union Jack e bruciando il vessillo albiceleste, dando la caccia ai passanti dall’aria latina, e malmenandoli. Non andrà meglio all’esterno dello stadio Azteca, dove gli hoolingans inglesi se la vedranno con i pari grado sudamericani, in quella che i cronisti del tempo hanno definito con poco genio “la seconda guerra delle Malvinas”. Il bilancio finale sarà di 12 feriti, sotto lo sguardo impassibile della polizia, che astenendosi dal fermarli si giustificava: “È una faccenda che devono risolvere tra di loro”.

Nell’impianto oramai vuoto, intanto, Maradona rispondeva alle domande di cento giornalisti e rediotelecronisti, tra una selva fitta di microfoni, telecamere e radioline che quasi lo schiacciano. “Dite che sono un Dio? Io sono solo il capitano della nazionale argentina”, replica. “Mano di Dio? No, mano di Maradona”, attacca. “Rivincita? Ecco, io avevo dentro di me l’orgoglio di tutti gli argentini, di tutto il Sudamerica”, racconta.
Il Mundial finì come doveva finire. Tutti più o meno ebbero l’impressione che gli avversari si fossero rassegnati all’ineluttabilità di Diego. Era come se Maradona corresse in discesa e gli altri in salita. Col Belgio fu ancora uno show del Pibe, tutto nel secondo tempo, a cambiare le cose. In finale, invece, i tedeschi della Germania Ovest credevano a speravano che fermare Maradona fosse bastato. Che bloccare lui voleva dire bloccare l’Argentina tutta. È stato vero il contrario: ha vinto l’altra metà dell’albiceleste, l’altra metà di Diego, quella altruista: Maradona è stato grande anche senza far gol, creando le premesse affinché li facessero gli altri. I suoi compagni. Mai sottovalutare l’altruismo in un campione, dicono. Finì 3-2, con lancio straordinario del Pibe a 7’ dalla fine, dopo la fragorosa rimonta tedesca (sotto di due gol).

E fu festa grande tra le strade di Buenos Aires: festa pazza, festa scomposta, festa esagerata. A gruppi, a centinaia si riunirono sotto la finestra dell’abitazione di Diego. La polizia fermò 23 persone a Baires, 40 a Rosario. A Berlino, invece, sconcerto, rabbia e delusione per una rimonta che avrebbe dovuto finire diversamente. Niente cortei, niente fuochi d’artificio, ordinati appena il giorno prima e rimasti inesplosi. Niente festeggiamenti per i clienti del Laikerstaten, casa di tolleranza di Monaco di Baviera, dove le 47 signorine avevano fatto sapere che, in caso di vittoria, avrebbero applicato uno sconto del 50 % per le loro prestazioni. Stanotte si va in bianco.

A 25 anni Diego alzò al cielo la sua prima coppa del Mondo. Con 114.600 spettatori quella finale fu la più seguita nella storia del calcio. Con il 71 % Maradona contribuì alle realizzazioni dell’Argentina, contando gol o assist. A 10 anni dall’intervista di Villa Fiorito, quel ragazzino mantenne la sua promessa. Con un occhio ai napoletani, che lo aspettavano, fremendo. Sì, perché dall’altra parte dell’oceano, dopo l’eliminazione italiana, Napoli si è trasformata in una succursale di Buenos Aires. Ha tifato, ballato, brindato ai fratelli di sangue. Ha elogiato e coccolato il suo asso. Lo ha invitato cortesemente a replicare. Ha immaginato già il trionfo, non più solo in Sudamerica. La signora Amelia Casagrande, proprietaria di un’enoteca di via Toledo, racconta che la notte prima della finale Mundial ha fatto affari d’oro: “Ho venduto champagne come fosse l’ultimo dell’anno”, sorride. Armando Masturzo, napoletano doc, è un assiduo frequentatore del ‘Superbar’ di piazza Carità, nel cuore cittadino. È un grande giocatore di schedine. Qui, in una roccaforte della tifoseria napoletana, nell’ultimo campionato “ignoti sistemisti” hanno vinto un miliardo e mezzo al Totocalcio. Masturzo, insomma, se ne intende: “Maradona è argentino sì, ma napoletano d’adozione – esclama con voce rafferma – È il migliore del mondo e l’anno prossimo ci regalerà lo scudetto”. C’è un’altra promessa da mantenere, Diego.

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