Quando era il Napoli a “mettere il pullman” ed a San Siro il Milan sbatteva su Pino Taglialatela

Un risultato come quello della sfida di ieri sera non racchiude, mai, una risposta univoca. Sono moltemplici i fattori che influenzano, indirizzano novanta minuti di gioco ed il pareggio imposto dal Milan agli azzurri rimanda a molteplici sfaccettature.

Tuke e condizione. La brillantezza dei migliori interpreti non è quella dei giorni migliori, un dato sviscerato a sufficienza da Sarri nel dopo gara. E se, tutti insieme, Higuain, Hamsik, Insigne, Allan non girano al meglio, se Callejon è la freccia più vibrante nella faretra del tecnico azzurro ma manca il colpo, portare a casa il massimo della posta può risultare a dir poco complesso. Lo stesso dicasi di quel pizzico di fortuna, edulcorando un altro riferimento del tecnico ex Empoli, che proprio non vuole accompagnarti, come a Torino, come al Madrigal. Perché se la deviazione, decisiva, di Abate viene compensata dall’assist involontario di Koulibaly a Bonaventura, sul palo a botta sicura di Mertens e sul pallone, caldissimo, a tempo quasi scaduto calciato da El Kaddouri tra le braccia di Donnarumma recriminare è lecito. Ma quando la tuke ti inganna, ti soverchia, il risultato è già scritto. L’Eupalla che Gianni Brera definiva a caposaldo di ogni successo calcistico non va a braccetto con gli azzurri, e questo è un dato di fatto.

Pragmatismo. Aspetti essenziali, questi, nell’analizzare il pareggio che ha impedito al Napoli di issarsi nuovamente in vetta, ma che non lasciano di certo in secondo piano i meriti del Milan. Scanditi nell’umiltà di arrivare a Fuorigrotta con la consapevolezza che solo due squadre, prima del gruppo di Mihajlovic, erano riuscite ad emergere dalle sabbie mobili tutta intensità e gran calcio offerti dal collettivo azzurro in questa stagione. Onore toccato alla Sampdoria contro un Napoli ancora in fase di gestazione e ad una Roma dedita esclusivamente a non prenderle, dal primo al novantesimo. Una squadra compatta, l’undici rossonero, tutto costantemente dietro la linea della palla, abbozzando qualche ripartenza, certo, ma senza mai perdere di vista l’imperativo: ergere una vera e propria linea Maginot dinanzi ai pali difesi dal non ancora diciassettenne di Castellammare di Stabia. Difesa solida, una linea a quattro impeccabile, chiamata a tampinare con ossessiva applicazione il movimento dei fulcri del gioco azzurro, sospinta da un supporto che non è mai mancato dagli altri reparti. Dal lavoro di Honda e Bonaventura passando per le continue sollecitazioni del tecnico serbo a Niang, invitato a spendersi con continuità a schermo su Jorginho. Atteggiamento pragmatico, un po’ provinciale, certo – e non è un’offesa – che forse stride un po’ con l’immagine costruista negli ultimi decenni dai rossoneri in Italia e in Europa, ma che rispecchia l’attuale stato di cose. Un neologismo, in voga da qualche anno, rimanda al mettere il pullman dinanzi la linea di porta. L’atteggiamento tipico di chi è consapevole dei mezzi propri e di quelli, superiori, dell’avversario. E allora ogni mezzo è lecito, non c’è etica che rimandi al bel gioco, l’essenziale è il risultato. E in riva al Golfo, nonostante vent’anni siano molti, c’è una gara contro i rossoneri che riporta a ricordi molto vicini al Monday Night del San Paolo, ma a parti invertite.

Più di una sfida. Annata 1995/96. La stagione precedente, con Boskov subentrato a Guerini, il canto del cigno del Napoli che fu. Il piazzamento UEFA sfumato all’ultima giornata nonostante la vittoria di misura sul Parma, complice la contemporanea vittoria dell’Inter sul Padova, il prologo ad un nuovo, l’ennesimo, ridimensionamento. Su tutte la cessione, dolorosa, di un figlio di Napoli che avrebbe scritto la storia: Fabio Cannavaro. L’obbligo di badare al sodo, con gli azzurri per la prima volta chiamati dopo interi lustri a lottare per la permanenza nella massima serie. E la ottenne, con una buona squadra e il modo di intendere il calcio che un vecchio bucaniere come lo Zio Vuja sapeva trasfondere ai suoi figlioli. Tanta sostanza, la doverosa premessa, senza badare a fronzoli ed estetica. Così il 12 dicembre 1995, con gli azzurri di scena a San Siro. L’avversario, il Milan di Fabio Capello, di lì a poco si sarebbe laureato campione d’Italia disarcionando dalla vetta la Juventus di Lippi, che si consolerà, restando negli eufemismi, con la vittoria sull’Ajax all’Olimpico, tornando sul tetto più alto d’Europa un decennio dopo la tragedia dell’Heysel. Una parata di campioni, quella rossonera, pronto ad annichilire un piccolo Napoli al cospetto della propria marcia.

Un muro chiamato Batman. Se vai alla Scala del Calcio al cospetto della difesa degli invincibili, una mediana infarcita di campioni ed un attacco composto da Weah, Baggio e Savicevic ad attenderti serafico, l’obbligo è creare una cortina. Non si fece pregare, Boskov, nel seguire un piano a cui era difficile muovere qualsiasi appunto. Difesa a 3 composta da Baldini, Ayala e Andrè Cruz, ed un intero gruppo ad attendere dietro la linea della palla. Compiti difensivi anche per Pizzi ed Agostini con il fantasista azzurro che solo una volta, alla mezz’ora, sporcò i guanti di un Sebastiano Rossi inoperoso per l’intero arco della gara. Ma quando l’avversario è di tale livello, quando il divario è tanto marcato, neanche un’abnegazione totalmente difensiva può essere sufficiente. Meglio affidarsi alla sorte, sempre lei, infusa a pieno nei guantoni di un portiere che, forse, in carriera ha raccolto meno di quanto meritava, causa una discontinuità che gli ha sempre impedito di spiccare il salto defintiivo: Pino Taglialatela, per un intero popolo Batman. Un estremo difensore che quando in serata di grazia era in grado di riempire gli occhi con numeri da circo, stacchi felini, una reattività al limite del prodigioso. E quella sera di dicembre fu davvero la sua serata. Tutto il meglio del repertorio  in novanta minuti di vero assedio, parate sontuose su Savicevic, anche a tempo scaduto, Donadoni, Albertini, Weah e Simone. Un assalto vero e proprio, ma a tenere la barricata c’era sempre la mano ferma del portierone nativo di Ischia. L’apoteosi nella prima frazione di gara, poco dopo il ventesimo, Weah scatta via in progressione e Andrè Cruz lo stende in area. Un talento raro, il libero brasiliano, un mancino col contagiri che ha regalato primizie agli occhi del pubblico partenopeo, ma quasi un centrocampista mancato, la marcatura mai stata il suo pregio; se poi si è al cospetto di una gazzella come il fuoriclasse liberiano la notte diventa cupa. Ecco la chiave di volta dell’incontro, dal dischetto si presenta Roberto Baggio, uno che – salvo la sfortunata parentesi di Pasadena – non mancava il colpo dal 5 settembre del 1993. Rincorsa decisa, battuta angolata e potente, ma il volo dell’estremo difensore azzurro è ipnotico per stile ed efficacia, e dopo un breve rimpallo il pallone finisce in angolo. Solo uno scalpo tra le sue vittime d’eccezione, una lista che spazia dal Divin Codino a Signori ed Abel Balbo, 11 rigori neutralizzati su 27 carriera. La gara si concluse a reti bianche, missione compiuta, per la soddisfazione di Boskov, un punto di platino in casa dei futuri campioni.

Cambio di ruoli. Le valutazioni, a caldo, nel dopo gara di Capello, furono sprezzanti. Dai musi lunghi all’allusione che quello messo in campo dagli azzuri, in fondo, non fosse calcio. Cozza, a distanza di anni, che provenissero dal tecnico friulano, uno che a conti fatti alla lunga, vincendo, ha comunque sempre più badato alla difesa a discapito dello spettacolo. Una pagina, nel libro della storia azzurra, dal quale scorgere più di un semplice raggio di luce in una serata amara come quella di ieri, con un’occasione di sorpasso sfumata ma che, in fondo, non compromette la stagione. La dimostrazione di come cambino i tempi, come si invertano i ruoli e in fondo, viene da dirlo, in bene.

Edoardo Brancaccio

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