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Per chi c’era, per chi ricorda, per chi mai potrà dimenticare. Il principio, quella calda estate del 2006: il fratello maggiore sul tetto del mondo e lui, Paolo Cannavaro, era pronto a conquistare il suo, di mondo. Ritornando a casa, anche se con una montagna da scalare. Ritornare a Napoli, riaprendo un libro di storia interrotto dalla disastrata era societaria che sarebbe culminata in un fallimento, doloroso. E che l’aveva costretto a migrare, del resto a quei tempi la rotta Napoli-Parma era un binario ad alta velocità a cui l’Ingegnere Ferlaino si affidava per rimpinguare le casse societarie.

E così fu il ritorno, ma non dalla porta di servizio. Certo, la Serie B era un boccone amaro da trangugiare tutto d’un fiato per chi, tra qualche critica e scetticismo, nel mondo del calcio stava trovando a pieno la propria dimensione. Non più il fratello di… Semplicemente Paolo Cannavaro. Parma, Verona e di nuovo Parma, alle porte del giro della Nazionale. Appuntamento da rinviare perché quell’opportunità era da cogliere al volo, di corsa. E fu così, un abbraccio lungo otto intensissime stagioni, 278 presenze sempre con quel groppo in gola impossibile da ricacciare. L’effetto è quello quando quella maglia la si vive, la si sente pulsare all’unisono con il proprio battito, in maniera intensa, indescrivibile.

Come impossibili da descrivere sono le sue lacrime, quelle della promozione in Serie A a Marassi scacciando un incubo, le porte del Paradiso finalmente spalancate per un popolo intero. Quelle per la storica qualificazione in Champions, così come per la Coppa Italia issata al cielo dell’Olimpico. Il primo trofeo del Napoli del dopo Diego saldo nelle sue mani. Il ragazzo della Loggetta ce l’aveva fatta, propheta in patria, per davvero. Coronando l’unica ambizione mai sfiorata dal fratello Fabio, vincere a Napoli e con quella fascia stretta al braccio. Onere e onore, da napoletano vero. Sempre con quella maglia cucita con naturalezza, più di una seconda pelle, un corredo essenziale dell’anima; anche quando il destino ha voluto altro, ha designato un percorso che in tanti, tantissimi in riva al Golfo non hanno condiviso. Perché diciamolo, anche nelle retrovie, un posto per il capitano di tante battaglie non era poi chissà quale eresia, anzi. Un addio sofferto, senza neanche garantire un saluto, che sarebbe poi arrivato dopo. E in maniera spontanea, pura e proprio per questo bellissima.

Ma Paolo Cannavaro è prima di tutto un professionista, ha accettato in silenzio, pronto a vivere una nuova esperienza a Sassuolo. Facendolo come sempre, a testa alta. E con il Napoli nel cuore, anche a distanza. Le accuse dei pochi e la strenua difesa di molti dopo la gara del Mapei Stadium di ieri rappresentano due facce della stessa medaglia in un’era social che spesso rifugge il controllo, alla razionalità. Accuse così assurde che non meritano ulteriori valutazioni. Lo stesso Paolo, con il suo solito stile ci ha tenuto a ribadirlo (LEGGI QUI). Ma che rappresentino un monito, Napoli e i napoletani si stringano a chi quella maglia l’ha amata, vissuta, mai rinnegata. E si pongano a loro difesa, sempre.

Edoardo Brancaccio

Articolo modificato 24 Apr 2017 - 15:04

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Scritto da
redazione