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L’editoriale di Deborah Divertito: “Eppure, prima o poi qualcuno ce la fa”

Napoli, si sa, è una città che respira iodio e calcio, mangia pizza e calcio,  beve limoncello e calcio. Attraversare Piazza Dante è una prova di abilità di tunnel, colpi di tacco e rilanci lunghi. I prati del bosco di Capodimonte diventano il San Paolo tutti i giorni per piccoli e più grandi. Quando la domenica non si trasformano in campi da cricket per i cingalesi. Integrazione culturale che a volte si è tradotta in improbabili sfide Italia-Sri Lanka. In entrambi gli sport.

E quando sei un ragazzino, a Napoli, hai poco da fare. Improvvisi due pali e una porta, prendi un Super Santos, indossi una maglia “parallela” della squadra azzurra e cominci a calciare, ad esultare, a dribblare, ad inventarti numeri  strani per poi vantartene con gli amici di sempre ricordando anche dopo anni ogni singolo episodio.

E quando sei un ragazzino a Napoli e hai la fortuna di iscriverti alla scuola calcio del quartiere,  impari anche un po’ di tecnica, un po’ di disciplina, conosci altri campi, altri ragazzi come te pieni di speranze e voglia di divertirsi, vedi l’orgoglio di mamma e papà concretizzarsi nelle prime partite dei pulcini e poi via via sempre più su. A volte i campi su cui si va a giocare sono difficili. Complicati. Minacciosi. Dove vincere potrebbe risultare pericoloso e giocare di tecnica potrebbe risultare snervante per un avversario che non bada alle ciance. E allora rimedi qualche calcione di troppo, maglia infangata da campi dove l’erba non si vede neanche più, semmai si sia vista qualche volta. E  magari riesci pure a farti vedere da qualche osservatore di squadre più importanti su cui riversi tutte le tue speranze. E quelle dei tuoi genitori. E quelle della tua fidanzata. E pure dei suoi genitori. Per poi tornare  il più delle volte a mani vuote e bocca asciutta.

Eppure, prima o poi qualcuno ce la fa.  Come Ciro Palmieri, un ragazzino di tredici anni approdato a Londra per un provino con il Chelsea e che, pare, ce l’abbia fatta. Quando ho sentito la notizia, mi è subito venuta in mente una persona, una famiglia, una storia ben precisa e ho pensato di condividerla con voi. E allora voglio raccontarvi di C., un ragazzino di tredici anni che, a modo suo, ce l’ha fatta anche lui. C. abitava nel Rione Salicelle, ad Afragola. Io ci ho lavorato quattro anni nel Rione Salicelle, posso dire di conoscerlo bene. E la famiglia di C. era una di quelle rispettate nel Rione. E il rispetto nel Rione non lo conquisti distribuendo caramelle. C. aveva un padre in carcere, regime di 41 bis,  che non l’aveva ancora riconosciuto e di cui lui non voleva il cognome perché “se no, a pallon’ non mi riconoscono più!”, ma al quale era molto legato; la madre, magrissima e con capelli neri lunghissimi, fumava sempre e mi offriva sempre il caffè con l’anice che io non rifiutavo mai. Ci teneva a dirmi sempre che lei era napoletana, non di Afragola. Eppure nel Rione non abitava  nella parte delle “napoletane” trasferite, ma poco importa. C. aveva anche due sorelle: una più grande che si rammaricava di non aver finito la scuola media, ma che non faceva niente per rimediare, ovviamente, e una piccoletta, bellissima, sveglia e molto affettuosa.  Con C. e con me. E questo mi aveva fatto conquistare la sua fiducia. C. era stato beccato con un fucile in mano lungo la strada tra Afragola e Caivano. Ecco perché  la segnalazione al tribunale, poi ai servizi sociali e quindi a me. E doveva ancora prendere la licenza elementare. Ma soprattutto C. era un fuoriclasse a giocare a pallone. Nel rione era conteso da tutti gli amici per le partite improvvisate tra le palazzine di cemento e i giardinetti-pattumiera. Invece lui non giocava molto con loro. Lui aveva un campo vero, una divisa, una squadra, il Cardito, e un allenatore paziente, che spesso lo andava a prendere fino a casa. Ricordo che mi aveva voluto conoscere perché, mi disse, che C. gli parlava di me e della mia passione per il calcio e per il Napoli e allora si era incuriosito. E gli parlava anche dei miei tentativi bizzarri di farlo diventare tifoso del Napoli. Perché C. era milanista. Innamorato di Kakà. E io non ci potevo pensare. Vi volevo raccontare di C. perché la storia di Ciro Palmieri me l’ha ricordato, mi ha ricordato l’entusiasmo della mamma e della nonna ogni volta che l’allenatore veniva con una proposta di provino nuova. Ricordo che una volta era la Fiorentina, con un provino fatto dopo un torneo vinto come capocannoniere. Un’altra volta era il Lecce. Un’altra volta ancora proprio il Napoli. E ogni volta C. sbagliava il provino. Un fenomeno con il Cardito e un flop nei provini. E lui non ne era per niente rammaricato. Mi diceva: “ Oi De’, ma io mi diverto pure nel Cardito!”. L’ultima volta che l’ho visto è stato qualche mese dopo aver finito il mio lavoro con lui. Partita Napoli-Udinese in serale, varco della Curva B e una voce che mi chiama da lontano: “Oi De’, hai visto?!Alla fine sono diventato tifoso del Napoli!”.

Ecco. È vero, prima o poi qualcuno ce la fa. Faccio il mio in bocca al lupo a Ciro Palmieri, ma io continuo a fare il tifo per chi continua a divertirsi pure con il Cardito.

Articolo modificato 14 Giu 2013 - 11:10

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Scritto da
redazione