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L’editoriale di Elio Goka: “Regina D’Antigny, e la Napoli delle maternità”

Da tanti conosciuta per aver interpretato la Filumena Maturano di Eduardo, Regina D’Antigny, in arte Regina Bianchi, io me la ricordo soprattutto per l’interpretazione della madre di Gennarino Capuozzo, nelle “Quattro giornate di Napoli”, film sulla Liberazione, diretto da Nanni Loy, dove il personaggio dell’attrice napoletana, nella disperata ricerca per i suoi figli di una sistemazione sicura e al riparo dalla guerra, smarrisce il più grande, poco più che dodicenne, dentro la resistenza del popolo napoletano, impegnata a scacciare i tedeschi dalla Napoli dominata e trafitta dal secondo conflitto mondiale.

Quella madre, sorella di tante madri, non lo ritroverà più, suo figlio, tragicamente caduto sotto i colpi della mitraglia nazista, davanti agli occhi increduli dei cittadini rivoltosi che, nella scena dell’uccisione di Gennarino, sospendono inutilmente la battaglia, ritrovando la rabbia proprio nella disperazione del momento.

È la storia vera di Gennarino Capuozzo, storico simbolo di una città. In una scena del film, Regina Bianchi incontra Gennarino quasi di nascosto, felice di potergli dare una patata, rimediata chissà dove, utile a sfamare il ragazzo, ma sottratta all’opportunità di sfamare se stessa. Durante il pasto del bambino, che pure vorrebbe offrirne alla madre, la donna ha una breve conversazione con Gennarino, rilevando in lui la maturità improvvisa che un evento tragico come la guerra costringe l’uomo, anche se giovanissimo, a raggiungere con rapidità. Bruciare le tappe, come le bombe e la distruzione bruciano le strade. “A ‘guerra fa crescere”, sussurra Regina Bianchi al piccolo Gennarino.

Nelle poche battute di quel dialogo, c’è l’ultimo saluto di una madre al proprio figlio, inconsapevole, speranzosa e quasi sicura di rivederlo, eppure, guida senza ritorno verso un distacco privato di tutto, pure di dio.

Regina Bianchi interpreta quelle parole come poche attrici avrebbero potuto fare. Il film, la finzione, il trucco, l’arte, diventano dose irrisoria di un quadro pietoso colmo di dignità. La fase cinematografica è un aspetto minoritario. La scena rimuove la separazione e realizza il vero delle sue parole.

Filumena Maturano è Titina De Filippo, il manto luttuoso e passionale del sole caldo e sanguinante dell’antichità è Anna Magnani, così come l’umorismo sottile e amaro della discrezione è Tina Pica, e il tormento cerebrale dei sentimenti è Pupella Maggio. Ma la maternità di un tempo irraggiungibile, è Regina Bianchi. Soltanto lei avrebbe potuto prestare la sua persona e la sua voce a quella scena, e la fortuna, oltre che l’occhio esperto, di Nanni Loy, è stata quella di poterne disporre.

Regina D’Antigny ha interpretato più volte la Napoli della seconda guerra. In quella “Milionaria” di Eduardo, nei panni di una donna “condotta”, costretta a piegarsi alla disonestà della borsa nera per ridare speranze alla sua famiglia, oltre alle Quattro giornate di Loy, nelle vesti di una donna coraggiosa e solitaria, che la miseria e la guerra riportano alla primordialità della sopravvivenza. Eppure, proprio in quello stadio estremo, Regina alleva una saggezza capace di portare con sé pure la morte. La madre di Gennarino è la storia di una città, e anche la migliore di tutte le attrici non sarebbe bastata, perché sarebbe occorso qualcosa di più che di un’attrice.

Regina Bianchi ha rappresentato una maniera che guida molte maniere. Diceva Devila che “Lo spettatore di Edipo, di Amleto, di Fedra, di Faust più che la  pièce, apprezza la propria cultura”.

Si perdono dentro i rimpianti dei figli, quelle madri come Regina, docili, prive di isteria, nel loro animo rassegnate di fronte alle ingiurie della vita, eppure sempre orgogliose e rassicuranti, dotate tanto della carezza quanto dello sguardo fine e glaciale, eretto a protezione di un inferno di tormenti.

Tanti registi, attori, scrittori, si sono interrogati sul tempo del teatro e del cinema, sulla loro contemporaneità, sul loro anacronismo, sulla loro utilità. Ma attrici come Regina Bianchi hanno saputo istruire di verità l’arte della finzione.

Quando penso a Regina Bianchi mi torna in mente il coraggio di Filumena che affronta la madonna a viso aperto, e la voce che da lontano l’ammonisce che i “figli sono figli”. Esistono filiazioni che non per forza devono essere naturali, così come esistono maternità vicarie, che in certe occasioni non fanno nemmeno sì che madri e figli s’incontrino. Un mistero doloroso del tutto umano. Di quale religione sia, non lo so. So che adesso davanti a quella madonna il posto è vuoto, e nessuno sa se qualcuno vi abbia più sostato.

 

Sebastiano Di Paolo, alias Elio Goka  

Articolo modificato 9 Apr 2013 - 13:36

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Scritto da
redazione
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