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Un tassista della Vicaria, una studentessa di Spaccanapoli, un avvocato del Vomero e un commerciante di frutta e verdura di Secondigliano ieri mattina si sono svegliati con lo stesso, strano sorriso stampato sulla faccia. Loro non lo sanno, perché non ci pensano: ma quello stesso strano sorriso è stampato sulla faccia di quasi sei
milioni di persone sparse qua e là sulla faccia della terra.

Sulle prime non hanno ricordato il motivo di quel sorriso, poi, quasi subito per la verità, il motivo è affiorato dalle nebbie del sonno sotto forma di un’immagine ben precisa: unoggetto metallico e scintillante,
sollevato da un ragazzo con una strana pettinatura sotto una pioggia di coriandoli.

Allora il tassista, la studentessa, l’avvocato e il fruttivendolo si sono alzati allegri dal letto e canticchiando sono andati sotto la doccia, stampando un bacio con lo schiocco sulla faccia dei familiari che incontravano sulla loro strada; e poi sono usciti in strada, coltivando i ricordi della serata precedente che man mano contribuivano alla costruzione della piena coscienza della ragione dell’allegria: la faccia di Marotta e Nedved, contorte dal dolore sull’ultimo rigore sbagliato, o la testata sulla spalliera della poltrona reale di Agnelli, per esempio.

E finalmente sono approdati al bar, dove in genere consumano un frettoloso ma ottimo caffè prima di immergersi nelle rispettive, caotiche giornate. Nel bar hanno specchiato il proprio sorriso in quello di tutti gli altri,come se durante la notte l’intera zona fosse stata colpita da un’epidemia di paresi facciali; e hanno dato luogo a una conversazione che ad altre latitudini parrebbe assolutamente surreale, col
soggetto sottinteso e come se ci si trovasse nella sede nascosta di una società segreta in cui si cospira per la sovversione dell’ordine costituito. E in un certo modo è proprio così, perché quella dell’altra
sera è stata proprio una sovversione, un match che non è stato vinto da chi si prevedeva che vincesse, una volta tanto.

Certo, parliamo di effimero. Noi su queste colonne, come i nostri quattro esemplari protagonisti, discutiamo di una sfera di materiale plastico pienad’aria che rotola su un prato adeguatamente rasato,
inseguita da una ventina o poco più di giovanotti in maglietta e calzoncini. E siamo pienamente consapevoli del fatto che i problemi veri sono altri, e che assai meglio sarebbe concentrarsi su di essi con serietà e attenzione,per cercare e proporre soluzioni.Lo sanno anche i nostri protagonisti: la studentessa, ad esempio, è ben cosciente che il corso universitario che sta seguendo a pieni voti e con gli esami in regola è il preludio di mesi e forse anni di file agli uffici di collocamento, di centinaia di curricula inviati dovunque e di migliaia di ore di call center a quattrocento euro al mese.Il tassista alla fine della piacevole conversazione evocativa sul volo di Rafael si ritroverà ad attraversare mille volte una giungla con fondo stradale disastrato e ore di attesa nei parcheggi, sperando che piova o che la metropolitana si guasti per l’ennesima volta.

L’avvocato dovrà fare i conti con clienti che non pagano adducendo la motivazione della crisi, pur incassando a nero centinaia di euro al giorno. Il fruttivendolo sarà costretto a esporre la sua merce nella consapevolezza
di doverne gettare via gran parte, quando resterà invenduta alla fine della giornata. Ma tutti e quattro, come centinaia di migliaia nell’area urbana e molti, molti di più nel mondo saranno inspiegabilmente contenti, e inclini a
sentirsi parte di un tutto. Non sapranno spiegarlo, e forse nemmeno saranno disposti ad ammetterlo, ma oggi la stessa città gli sembrerà meno temibile, e più accogliente.

Questo stato d’animo subliminale, questa strana disposizione dello spirito gli farà avere un comportamento più tollerante e gentile, e migliorerà la giornata anche di quelli che con loro avranno a che fare. Purtroppo l’euforia andrà evaporando un po’ alla volta, lasciando il sedimento della solita diffidenza di quest’arcipelago di due milioni di isole troppo distanti l’una dall’altra, a meno che nel frattempo (magari già il prossimo undici gennaio) non intervenga un’altra squillante vittoria a rinfocolare il sentimento.

Il calcio è un gioco. Niente più di un bel gioco, facile da comprendere e da praticare,con bei gesti atletici e divertentisituazioni imprevedibili. Ma ha un suo epos,e ripropone vicende che ricordano antiche mitologie: consente di tifare Davide che rivince contro Golia, di ribaltare l’esito delle Termopili o di seminare Waterloo sul sentiero degli invincibili. Come tale, convoglia su di sé il desiderio e la passione di masse enormi di persone, e ne uniforma la gioia o il dolore senza causare, se tutto va bene, spargimenti di sangue. In un’epoca che ha visto venir meno una alla volta tutte le grandi passioni civili,come la politica, i movimenti sindacali e le lotte di classe o almeno di categoria, è rimasto il pallone coi suoi irregolari rimbalzi a far battere all’unisono molti cuori senza distinzioni di ceto o di censo: quindi, il suddetto pallone ha diritto a considerazione e rispetto. Ciò è tanto più vero in una città come questa, gravata dalla maledizione dell’individualismo che la rende invivibile, piena di gente che si guarda bene dal sentirsi parte di un tutto. Il pallone almeno ci fa sentire, per un po’, uniti. Non è certo una vittoria sociale quella che ha portato in strada tante auto piene di gente che si sporgeva dai finestrini, sventolando bandiere e sciarpe e strombazzando clacson e bombolette a sirena; ma almeno questa gente si abbracciava e si sorrideva, dandosi il cinque ed esibendo perfino qualche lacrimuccia di commozione invece di borseggiarsi, picchiarsi o guardarsi in cagnesco per un parcheggio o una precedenza.La comune identità dovrebbe essere riconosciuta nel linguaggio, nella cultura millenaria o almeno nei bisogni e nelle necessità di un quotidiano difficile e oneroso, siamo d’accordo: ma se viene accesa da un sorriso derivante da un’effimera vittoria calcistica non c’è niente di male.

La primavera napoletana del primo mandato bassoliniano venne dopo un grande (e unico) periodo di meravigliose vittorie calcistiche. Magari non fu un caso.Magari quel momento nacque dalla convinzione di poter essere vincenti e napoletani, e di poter determinare la propria sorte con le proprie mani senza necessariamente aspettarsi soluzioni e provvidenze da altri luoghi e altre mentalità. Certo, non durò molto, come purtroppo non durò molto il Napoli vincente di Maradona e Careca, ma lasciò il segno di un bel ricordo sulla pelle martoriata della città. Questa supercoppa non conterà nulla o quasi, nemmeno in chiave calcistica: ma ieri in strada c’era una strana aria di festa, di sorrisi e di letizia, e non era per l’incipiente Natale. Ieri essere napoletani non era male, e gli sguardi complici e le chiacchierate, le analisi del gol del Pipita o delle sgroppate di Gargano risuonavano da un vicolo all’altro e ognuno si sentiva di dire la propria, anchesolo per raccontare che aveva fatto o detto, e che gesti aveva compiuto all’indirizzo degli avversari quando l’ultimo rigore era stato parato. Ci sembra che l’importante sia l’effetto, il raggiungimento di una convinzione, molto più del modo col quale ci si arrivi.

Se basta una vittoria calcistica a farci stare meglio insieme, a farci sentire tutti sullo stesso carro, allora sarà facile pensare che è meglio che il carro non si ribalti. Il senso civico è bello da qualsiasi parte arrivi. E crediamo che a nessuno sia dispiaciuto sentire un po’ di gioia in giro, e sapere che si era contenti insieme una volta tanto, anche se solo per poco, e solo perché una dozzina di ragazzi, di cui nessuno napoletano, aveva vinto una partita a
quattromila chilometri di distanza. Anche perché se il cielo e il mare ieri avevano quel colore, nell’aria limpida di unmite dicembre,un motivo ci sarà.

 

Fonte: Maurizio De Giovanni per il Mattino

 

Articolo modificato 24 Dic 2014 - 11:43

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Scritto da
redazione