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In ogni attività umana la partecipazione emotiva è giudicata come ostacolo alla reale comprensione delle cose, agente inquinante che offusca lo sguardo e rende zoppo il valutare. Questo assunto può essere vero per tante realtà , ma non per il calcio.
Il vero sacerdote di questa religione laica non è il calciatore, è il tifoso. E’ lui che permette l’apparire miracoloso dello spettacolo, sono i suoi soldi che abbeverano le gole arse delle società.
Ma questo spesso viene dimenticato, e la dimenticanza poggia su un assunto ignobile, ossia il presunto profilo basso del sostenitore, il suo essere quasi privo di coscienza, un animale dall’educazione elementare che trova nel calcio una droga alla sua grigia vita.
Questo pensiero va messo al rogo, è una menzogna storica che va rovesciata.
Il tifoso è come il mitico Atlante, sostiene sulle sue spalle i sogni, la sua schiena si spiega sotto il peso della metafisica ingiustizia che lo costringe a provare deliri e tracolli che l’ anima eccitata percepisce come immensi. Non il mestierante calciatore è il Dio, ma quest’uomo che crea e disfa nella sua mente le glorie più irriverenti. Sì, costui è la vera e sola divinità del calcio.
E allora a queste divinità dobbiamo concedere la libertà del libero dire, sovrani passionali che un marchingeno inceppato ha voluto relegare a rango di spettatori ebeti e “impallonati”, nel senso etimologico di creature soggette a sconfinate prese per i fondelli.

Stanotte ho fatto un sogno. Nel sogno una folla di tifosi del Napoli mi si presentava con le labbra cucite da un doppio fil di ferro, ma uno di loro, doveva essere il capo ( anche le divinità hanno i loro superiori), mi tendeva muto un foglio. L’ho preso. Loro continuavano a guardarmi come a supplicarmi di concedere loro vita, di leggere per liberarsi finalmente da quei pensieri non detti che torturavano la testa.

Questo è ciò che vi era scritto, non una parola ometterò nè alcuna aggiungerò, nè mi preoccuperò di correggere la parlata e l’ortografia. Queste cose vanno dette nel nostro bellissmo dialetto, perché certe frasi vanno solo dette così per conservare la loro reale sovversione.
“Ahò, e a putimme’ furnì mo’. E na vota l’amichevole a dieci euro, nata vota i preliminare a’ otto euro, e che ssimme scieme? E ce pare che ce vulite piglià pe’ fessi. Ogni anno a stessa storia, u’ Napule è nu’ progetto in progress, ce vulimme attestà tra le big d’Europa. E po’? Po’ vennene a Lavezzi, Jovetic è fraceto, Verratti è nu criature. Ma sta chiavica e fair-play sule nuie l’amma fa’? E dicitele na ‘bbona vota che cheste so’ e forze do Napule, che simme destinati a trasì e uscire dalla zona Championz.
Po’ mo’ è asciute u fatto e Messi, chissà, tra quatto o’ cinque anni. Ma iatevenne, overo allora penzate che i cerevelle n’gapa ne tenimme? Nui nun simme paglialune, e ‘ccose e capimme. Facimme e surde e a parte de scieme pecchè in fondo un po’ anche a noi conviene. Se perdimme a speranza pure nell’illusione, o ‘ssaie che vita nera se para annanza all’uocchie? Nuie vulimme chiarezza, vulimme essere trattati comme cristiani che arraggionano, non comme ‘nzallanute ‘bbuone sule a caccià e sorde arinde a sacca. Trenta miliune Lavezzi, nate e quaranta già ce’ stavene..nè, ma arò stanne sti sorde? Che parlassene chiare sta’ ggente, immà magnà o vulimme sule spuzzulià?”

Con questo interrogativo si chiudeva la lettera. Non me ne vogliate, io ho solo riportato un sogno, e i sogni, si sa,nascono sotto l’ala della libertà,guai a tacerli.

Carlo Lettera
Riproduzione riservata

Articolo modificato 11 Lug 2012 - 21:30

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