Il Napoli, i pali e la sfortuna: una questione da risolvere

Il calcio, alla stregua di ogni sport, non è altro che uno dei tanti rami in cui la vita umana si districa. In quanto tale, esso è soggetto alle medesime leggi che regolano l’ordine del mondo, dalle sue manifestazioni più microscopiche a quelle visibili ad occhio nudo. Per questo motivo, dare un calcio ad un pallone con l’intento di segnare una rete può avere la stessa probabilità di successo di cuocere un piatto di spaghetti perfettamente al dente. L’agire umano è, per forza di cose, influenzato dall’azione del caso: un influsso da cui non si scappa, o forse no.

FACCIAMO UN PASSO INDIETRO. Il rapporto problematico con la fortuna, soprattutto in noi italiani, è insito nella nostra stessa natura. Lo testimonia ciò che avveniva nell’antica Roma: all’inizio dell’anno veniva redatto un calendario che, basandosi sul volere degli dei, indicava i giorni in cui era consigliato dedicarsi agli affari (i “Fasti“). Per cui, nonostante l’incessante scorrere dei secoli, queste credenze si sono radicate nella cultura nostrana, sino a giungere ai giorni nostri. La stessa Napoli è famosa per il suo legame così viscerale con la scaramanzia, prerogativa che non poteva non intaccare il calcio, istituzione sacra nel capoluogo campano.

UNA SFORTUNA A TINTE AZZURRE. La sventurata gara fra Napoli e Juventus ha riacceso una questione che ciclicamente torna con prepotenza sul banco: il Napoli è davvero troppo sfortunato? Gli azzurri hanno colpito ben due pali domenica sera, il primo con una rasoiata di Zieliński, un minuto dopo la rete inaugurale di Pjanić, il secondo in occasione del rigore fallito da Insigne sul 2-1. A prescindere o meno dal risultato finale del match, che ha visto uscire i bianconeri vittoriosi, i due legni colpiti si aggiungono alla lunga lista di pali e traverse su cui si sono infranti i tentativi della compagine guidata da Ancelotti.

Sono ben 21 i legni stagionali, arrivati soprattutto nelle partite più difficili, quelle che hanno inevitabilmente segnato il cammino di questo Napoli. A partire dal palo centrato da Zieliński alla prima giornata contro la Lazio, col Napoli in quel momento sotto 1-0 all’Olimpico, sino a quello sopracitato di Insigne. Proprio il polacco e il novello capitano sono i calciatori azzurri che più volte hanno visto le proprie conclusioni interrompere la propria corsa a pochi centimetri dalla gioia personale e collettiva.

QUESTIONE DI IMPRECISIONE. Che il Napoli sia cambiato – e non poco! – con l’arrivo in panchina di Ancelotti è sotto gli occhi di tutti; allo stesso modo è palese l’appannamento degli uomini che ne costituiscono il reparto avanzato. A turno, se non anche in contemporanea, i principali catalizzatori delle manovre offensive sono andati scomparendo, lasciando un grosso vuoto nella casella dei gol (9 match senza reti sinora). I vari Mertens, Milik, Insigne, Callejón, non sempre hanno rispettato le attese e si sono mostrati troppo spesso poco lucidi nel momento clou. A quest’ultimi va aggiunto anche Zieliński, centrocampista capace di distinguersi sia per la mole di incursioni e giocate da strizzare gli occhi, che per la scarsa precisione negli ultimi metri.

OLTRE LA SFORTUNA. Non si può parlare di sfortuna quando si creano oltre 10 palle gol senza trovare la via della realizzazione. Il calcio vive anche di accidentalità, un piede che perde l’appoggio prima di calciare, un tiro perfetto deviato impercettibilmente, una zolla che decide di saltare nel momento sbagliato. Ciononostante, che si tratti di pali, traverse, incroci, lì davanti si sbaglia troppo. La scarsa freddezza di Mertens a Firenze, l’improduttività vista col Milan, al termine di un campionato hanno un peso imponente.

È questa la grossa differenza fra Napoli e Juventus. Pur essendosi affacciati solo in un paio di occasione dinanzi alla porta azzurra, i bianconeri hanno trovato due reti che sono risultate decisive. Stiamo parlando sì di campioni, ma non così distanti dall’ottima formazione che il Napoli, dopo anni di progressiva costruzione, adesso può mettere in campo. La questione, se non è tecnica – e la qualità certamente non manca – allora non può che essere di tipo psicologico.

SONO LONTANI I TEMPI DI REJA E MAZZARRI. Soltanto pochi anni fa, il Napoli era una squadra che, a causa del modesto valore della rosa, proponeva un calcio molto attendista, simile – con le dovute eccezioni del caso – al tanto osteggiato gioco offerto da Allegri. Prima alla corte di Reja, condottiero del ritorno in Serie A, poi con Mazzarri, gli azzurri non si distinguevano certamente per un “bel gioco” di stampo sarriano. Eppure i risultati, in un modo o nell’altro, spesso arrivavano.

I più nostalgici di quel periodo ricorderanno sicuramente la rimonta effettuata nel recupero contro il Milan, o il goal al cardiopalma di Cavani contro il Lecce. Quei Napoli non erano neppure lontanamente paragonabili alla straordinaria compagine edificata nelle ultime stagioni. Seppur la tecnica e l’organizzazione in campo non fossero delle migliori, la cattiveria agonistica non mancava. Mai.

MIGLIORARSI PER SCONFIGGERE IL CASO. Allora il problema si riduce ad un dover ritrovare i giusti canali, specchiarsi in se stessi per curare le imperfezioni. Se questo campionato è finito ancor prima di iniziare, l’Europa League è un obiettivo alla portata della banda Ancelotti.

La fase finale di questa stagione 2018/19 sta per entrare nel vivo. Il Napoli deve concedersi al massimo per staccare un biglietto per Baku, in Azeibargian, dove si terrà la finale di EL. Che non si parli più di sfortuna, le vittorie ce le si costruisce da sè.

Ora, piedi saldi a terra. Sguardo rivolto al cielo, fra una nuvola e un soffio di vento

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