Cannavaro, è solo un arrivederci: cambia forma e non sostanza

Paolo Cannavaro ha appeso le scarpette al chiodo. Lo ha fatto oggi, lo ha fatto con la maglia del Sassuolo addosso, contro la Roma in quello stadio dove ha alzato la Coppa Italia quando di maglia ne aveva un’altra: quella del Napoli, il suo Napoli. Come sa essere strano il destino. “Voglio essere per Napoli quello che Totti è per la Roma”, aveva dichiarato anni addietro. Come sa essere stronzo il destino.

E Paolo Cannavaro lo sa, lo sa quanto il destino sappia complicarti la vita. Perché se sei “il fratello minore di Fabio” impari subito a farci i conti, col destino.

Eppure, il destino lo ha voluto a Napoli: stagione 2006-2007, il ritorno; e il ritorno in serie A. Quelle lacrime i più affezionati ce le hanno impresse ancora davanti agli occhi: se lo ricordano “il fratello minore di Fabio” che piangeva di gioia; qualcuno si è sentito come lui, quel giorno.

Qualcuno si è sentito come lui anche quando lo ha visto alzare al cielo la Coppa Italia a Roma, il 20 maggio 2012. Contro la Juventus, poi. Un napoletano che alza un trofeo contro la Juve. E piange. Il destino sa essere anche gentile.

Non sempre, però. Perché per Paolo Cannavaro a Napoli non è stato tutto bello. Una storia di amore-odio con la sua tifoseria; non è facile giocare nella tua terra, tutti si aspettano di più. Anche Napoli è orgogliosa e, come una mamma, difficilmente dice ad un figlio quanto è bravo. Lo fa, in genere, non davanti a lui; o quando il figlio parte. Lì mamma-Napoli diventa pronta ad aprire le braccia ogni volta che “scende giù”. Fiori, striscioni, cori e lacrime. Altre lacrime e ancora lacrime, quelle di un uomo che ha dovuto fare i conti con un destino che lo ha portato lontano da casa, ma che casa sua non l’ha mai rinnegata; anzi.

Non lo ha fatto nemmeno oggi, Paolo Cannavaro, nella sua ultima partita da calciatore. Ha ringraziato il Sassuolo e i suoi tifosi; ma, poi, subito un pensiero a Napoli: “Mentre venivo in pullman, mi è tornata in mente la Coppa Italia vinta proprio qui all’Olimpico da capitano degli azzurri”. E lacrime, ancora una volta lacrime.

Questa volta, però, sono lacrime di consapevolezza: perché si fa così quando le cose finiscono e tu non hai proprio niente da rimproverarti. Il destino puoi sfidarlo e pure vincerlo.

Alla fine del percorso, Paolo Cannavaro può dire di avercela fatta: ha battuto il destino, lo ha fatto fesso col sudore della fatica e con due occhi azzurri come l’acqua, ma dove ardeva il fuoco. Cannavaro ha tolto le scarpette e posato la maglia non più azzurra, ma con quel solenne 28 sulle spalle. La sua maglia col 28 e quel cognome, Cannavaro, che non pesava più come l’inizio; che è stato solo suo.

Quante cose ha imparato Paolo Cannavaro e quante cose ci ha insegnato. Ci ha insegnato l’affanno del caso, ci ha insegnato la caparbietà di riuscire a tenerselo sulla schiena e il coraggio di abbracciarlo tra mani più adulte. Ci ha insegnato che un calciatore è anche – e soprattutto – un uomo, e che non deve avere paura di dimostrarlo. E ci ha insegnato che quando si ama, si ama e basta; anche se piovono critiche, anche se qualche volta le lacrime non sono di gioia, anche se si è costretti agli addii. Quando si ama, si resta: si cambia forma, ma non sostanza. E Paolo Cannavaro è tanta buona sostanza. Grazie, Capitano.

 

FELICIANA MASCOLO

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