Il Napoli “bamboccione” e le lezioni di Cholismo

48 punti su 54 disponibili. 45 reti segnate. Inviolabile come nessun altro in Italia e solo il Borussia Dortmund nel resto del continente. Il fortino del San Paolo è la vera miniera d’oro del Napoli di Sarri. Il microcosmo abitato da forme di vita costituite dalla stessa sostanza dei sogni. Sul quel terreno incantato è nato un nuovo volto del calcio partenopeo, che ha saputo sorprendere e spesso bastonare i suoi ospiti. La nostalgia di Fuorigrotta, però, ha strizzato la stagione azzurra retrocedendola da trionfale a grandiosa. Nessuna disfatta, considerate le premesse iniziali. La mamma è sempre la mamma, ma questo Napoli un po’ “bamboccione” dovrà crescere e imparare a sopravvivere senza lasagna domenicale e lontano dal mare del golfo.

E’ il mal di trasferta la disfunzione da curare. In casa gli azzurri impongono le proprie geometrie, sanno tessere la propria tela con pazienza ed equilibrio, sfruttando sovente l’atteggiamento delle squadre avversarie e la spinta del pubblico amico. Un pubblico a volte fin troppo pretenzioso, con vuoti desolanti sugli spalti nelle ultime sfide, ma sempre schierato dalla parte dei giocatori anche quando il desiderio tricolore è svanito. Il calore del focolare domestico infonde sicurezza e tranquillità, con la consapevolezza di una superiorità che prima o poi si manifesta all’interno dei 90 minuti. Varcato l’uscio, tutto ad un tratto, le certezze vacillano e a straripare sono le lacune. A dire il vero tutte le debolezze sono fiorite da quel maledetto 13 febbraio, attecchendo facilmente quando stanchezza psico-fisica e pressioni di ogni tipo hanno preso il sopravvento. E domenica proprio a Torino, per ironia della sorte, si tornerà per riprenderci almeno in parte ciò che ci è stato strappato. Nervosismo, mancanza di personalità e una buona dose d’inesperienza: fattori, questi, che hanno pian piano finito per corrodere la giostra azzurra. Un’attrazione quasi condannata ad essere sempre all’altezza dello spettacolo promesso. Ma nel calcio, ad onor del vero, talvolta si vince a luci spente.

Strabiliare gli occhi dello spettatore è la via maestra per vendere questo sport e giustificarne gli introiti. Una lacrima però, soltanto una, legata al successo della propria squadra del cuore tiene tutti gli appassionati ancora avvinghiati ad una speranza. Perciò l’Europa intera si è inchinata davanti alla mission impossible di Claudio Ranieri: il suo Leicester è il nostro Leicester. Il romanzo che tutti vorrebbero scrivere o almeno sussurrare ai propri figli. Perciò il Cholismo  di Diego Simeone è divenuto un movimento, un tema di dibattito. Catenaccio o Tiki Taka? Vincere sfruttando le proprie forze o allietare la platea rischiando di restare a bocca asciutta?

Alle pendici del Vesuvio si è giocato il miglior calcio d’Italia a detta di molti. Cos’è mancato allora? Il sacrificio, infangarsi le mani, quell’umiltà nell’ammettere di non poter guardare perennemente dall’alto verso il basso. Occorre catapultarsi in battaglia con la stessa foga del peggiore dei guerrieri. In punta di piedi si finisce per essere travolti. Annullare la propria superiorità, invece, consente di fissare il nemico negli occhi e carpirne le debolezze. Batterlo, magari, in modo sporco, rocambolesco, con una semplice deviazione su calcio d’angolo (la miseria di 5 gol su 100 sono stati segnati dagli azzurri su palla inattiva). Piccolo con le piccole, grande con i grandi. Un processo lungo da introiettare, l’autentico laboratorio dove si produce la mentalità vincente. Possesso palla, numero di passaggi riusciti o dominio nella tre quarti avversaria sono gelide statistiche. Abbastanza deboli da non riuscire a sollevare un trofeo.

Lungi da me venerare il Cholismo nella sua totalità, sia chiaro. L’identità di gioco e di squadra conferita da Sarri alla sua creatura è quanto dalle nostre parti si attendeva da tempo. Tutti, perfino la pluridecorata Juventus, hanno palesato timore e rispetto nelle sfide dirette adeguandosi al nostro stile. Uscire a testa alta ma sconfitti, tuttavia, non credo sia così piacevole. Dunque il pragmatismo e lo spirito combattivo ha vita lunga, soprattutto nell’Europa dalle Grandi Orecchie alla quale aspiriamo. Certo, il mister dovrà essere chiaro con la società sul materiale a disposizione. Il carisma non si compra al mercato e non si estrapola da un involucro vuoto. Lo si faccia scendere in campo dal 1’ minuto con uno sforzo economico, invece di lasciar spazio a meteore di (incompiuta) prospettiva. Un po’ di coraggio su. Non siamo più dei bamboccioni!

Ivan De Vita

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