Higuain e Llorente, una notte per confermarsi fuoriclasse e leader del calcio mondiale

Cos’altro serve? Quaranta milioni di sfumature azzurre disegnate nell’universo Napoli: l’uomo dei sogni è un totem che seduce e in quell’orizzonte in cui si sussurrano le favole, ciò che resta i Higuain è l’umiltà feroce ed il singolare altruismo, è il talento abbondante ma anche quella personalità tracimante. Cos’altro, sir? Ventuno reti e dodici assist, graffi sulla pelle di chiunque e pure l’ampia dimostrazione d’immensità tecnica: nel vuoto di quei venti punti che spalancano il baratro dalla Juventus scivola, melanconica, il desiderio di bardarsi di verdebiancoerosso e però c’è dell’altro in quest’annata egualmente fantastica, rimpianti che restano e che comunque rappresentano patrimonio sul quale coltivare e la coppa Italia, il miraggio del secondo posto e (magari) un titolo da capocannoniere per mostrarsi ancor più compiutamente nella sua Grande Bellezza.

LACRIME NAPULITANE. Il poster che non ingiallisce mai è in quel san Paolo devastato dalla tristezza, stordito e però partecipe del «dramma» (sportivo, sia detto) d’un Higuain che piange, e tanto, mentre è scivolata via la Champions League con dodici punti e un percorso straordinariamente beffardo: e in quella clip, in quel manifesto d’amore, c’è il senso d’appartenenza che funge da (ulteriore) collante con l’idolo di questi giorni, il «nipotino» di Sua Maestà Diego accolto con l’euforia che si può riservare ad una star e con la certezza che stavolta oltre Cavani – e le sue centoquattro perle in tre anni – ci sarebbe stato un nuove eroe.

DI TUTTO UN PO’. Higuain è il vecchio che avanza ma anche la meglio gioventù (26 anni appena, giova ricordarlo) d’un calcio senza frontiera; è la sintesi perfetta tra scuole diverse, lontane e però entusiasticamente vicine; è il bomber perfido dei sedici metri o anche l’atleta universale che va in pressing o fa da sponda, che sente l’area (e la cerca) ma che s’industria per lasciar sviluppare la manovra: e la cartina di tornasole stagionale è lo specchio della sua anima nobile, della leggiadria sotto porta e della generosità incontestabile. Napoli-Juventus è la (sua) Partita, il derby intestino tra ciò ch’è diventato e ciò che poteva essere, una retrospettiva su quell’estate vissuta da spettatore interessato, con Madame che ci ha provato e De Laurentiis che c’è riuscito: quaranta milioni per un pipita d’oro. O serve altro, señor?

Orfano di Tevez, ma cavaliere senza paura. Fernando Llorente scende in campo a Napoli con una grande responsabilità sulle spalle, ma anche con una trasfusione di orgoglio supplementare, ammesso che ce ne fosse bisogno, perché si parla di uno spagnolo. Spagnolo come Benitez, come Callejon, come l’argentino Higuain che però ha vestito la casacca del blancos di Madrid per sei anni.

ALL’ANDATA. Llorente trafisse il Napoli con un gol all’inizio, ma oggi la posta in palio è ben più grande, almeno per la Juve: a testimoniare quanto siano mutevoli le settimane del calcio, quella che doveva essere la supersfida scudetto, non lo è più, ma una sconfitta al San Paolo potrebbe ridare fiato alla Roma. Orgoglio e responsabilità, quindi, anche e soprattutto di colore bianconero, con la missione di convincere i compagni che anche senza lo squalificato Tevez si può, quanto meno, tenere testa al Napoli. Fernando è l’immagine perfetta della Juve di oggi: con la benzina in riserva, attaccata al suo senso di squadra.

ORGOGLIOSO. E’ stanco perché da sette mesi si sobbarca un lavoro massacrante, palla a Fernando, che la difende e la smista a un compagno per favorirne l’inserimento e per poi buttarsi dentro anche lui. Prende colpi, tace e riparte. Sbaglia qualche gol sicurezza perché i suoi polmoni sono spompati, specie nei finali. Ma procura punizioni determinanti come quella di Firenze. L’inizio è stato difficile, ma adesso splende il sole. Oggi si ritrova vicino Osvaldo, che alterna meraviglie a sciocchezze. E’ un po’ di tempo che non segna, ma gli undici gol sono stati tutti decisivi e di ottima fattura, nessuno su rigore, esattamente come il connazionale Callejon. Prendiamo l’ultimo, a San Siro con il Milan, a coronamento di una azione spettacolare e a definitivo suggello di una etichetta che ormai non si toglie più, quella di giocatore importante.

VINCERE SEMPRE. Pensa anche all’Europa, naturalmente, perché adesso che la Coppa sembra un obiettivo più avvicinabile e gli farebbe piacere alzarla, perché la sfiorò solo due anni fa con il Bilbao. E alzare la bandiera della Spagna, perché solo tre connazionali in passato (Suarez, Peirò e Del Sol), si fecero onore qui, come Borja Valero e Callejon, i contemporanei che sembrano invertire la tendenza negativa del vari Mendieta, De La Pena, Bojan, Josè Mari, Xavi Moreno, Gallego, Amor, Martin Vazquez e lo stesso Guardiola, che pure era stato grandissimo. Adesso è il momento di scrivere la sua storia italiana per farla leggere a chi in Spagna non ha creduto abbastanza in lui.

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