Maurizio De Giovanni: “Quando il risultato conta più della prestazione…”

Una serata particolare, alla quale gli azzurri si erano peraltro presentati con la migliore formazione possibile in questo momento, e i tifosi con l’atteggiamento sospeso tra critica (di chi c’è) e speranza (di nuovi arrivi), infreddoliti e un po’ impauriti dal futuro prossimo venturo in cui la montagna delle dichiarazioni roboanti di fine anno ha partorito il topolino Jorginho, migliore tra i peggiori, tuttavia. Una partita brutta, da dare ragione a chi ha preferito plaid e poltrona agli spalti comunque affollati, perché le ragioni del cuore dominano su quelle della mente. Una partita brutta e forse dannosa, ad onta della semifinale acciuffata nel finale giocato a tamburello, col Pipita che intercetta la disperazione di Callejon fatta tiro al volo, destinato ai tabelloni pubblicitari. Dannosa? Dannosa, perché ha proposto l’involuzione tecnico–atletica di uomini come Maggio e Inler, l’inadeguatezza perniciosa di Réveillère, la mediocrità di Fernandez.

E soprattutto dannosa perché a margine di essa si consuma il dramma umano di Lorenzo Insigne, schiacciato dal peso delle enormi speranze in lui riposte fin dallo scorso anno, pressato dall’ingombrante presenza del folletto belga Mertens, obiettivamente non relegabile in panca, beccato a ognuno dei peraltro frequenti errori da un pubblico che non accetta profeti in patria e che è stanco di rinfoderare ambizioni. Ed esce, Insigne, ed esce protestando contro i fischi ingenerosi ma tecnicamente motivati; protesta, perché sa che può dare e fare molto meglio e molto di più, protesta contro il mondo e contro se stesso. E ha ragione a protestare, perché fa tutto il possibile in questo momento e si sente sfuggire il mondo e il mondiale dalle mani, e più ci prova e meno gli riesce. Forse Benitez dovrebbe dargli respiro, e consentirgli di completare la ricerca di nuove forze e nuove motivazioni tra le pieghe di una stagione intermittente; dovrebbe capire, Lorenzo, nel caso fosse per un po’ estromesso dall’undici titolare, che non si tratta assolutamente di bocciatura, anzi; che lui è un capitale azzurro, di ogni azzurro, e che quindi va preservato; e che, in questa fase atletica, restare in campo ostinandosi a proporre giocate che non riescono è di fatto un suicidio tecnico che potrebbe, Dio non voglia, causare un pernicioso ritardo della sua esplosione.

Strana serata, vero. Ma comunque una serata vittoriosa, per fortuna senza la iattura dei supplementari, e quindi si va avanti in coppa con una doppia sfida da brividi col ritorno in casa, e un possibile approdo a una finale che se vinta salverebbe la stagione; una stagione difficile da raddrizzare, vista la marcia delle due lepri in campionato e il colpo di gas dato soprattutto dai giallorossi in due giornate in cui al di là del pareggio con Bologna e Chievo gli azzurri non sono riusciti ad andare. Strana serata, ma forse la serata perfetta ai fini dei movimenti da fare nelle ultime quarantotto ore di mercato. Perché mettersi a contare gli spiccioli, perdendo qualche buona occasione e rinviando a giugno le necessarie integrazioni alla rosa potrebbe diventare un suicidio; perché convincere i cosiddetti top player a venire in una squadra che oltre a salary cap e diritti di immagine e contratti da cinquanta pagine non gioca nemmeno la Champions, sarebbe più impossibile che difficile. E alzi la mano chi, quando lo stremato Pipita si è fermato all’ultimo secondo rallentando e spezzando la corsa, non ha trattenuto il respiro per il terrore.

FONTE Il Mattino

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