Benitez: “Ho sposato il progetto Napoli perchè sono convinto che insieme possiamo vincere. Il campionato è lungo e fino alla fine non molleremo”

Si può dire: buon Natale. Perché ora è tutta un’altra storia e sul tavolo che resta imbandito per una festa un pochino misteriosa («voglio vincere qualcosa, ma non vi dico cosa»), stavolta il panettone c’è rimasto per intero, senza mai il rischio di mandarlo di traverso. Vedi Napoli e ripensi a ciò ch’è stato, a quel dicembre del 2010 consumato nel frullatore d’un esonero annunciato, ad un Benitez strapazzato dagli eventi e ridimensionato (apparentemente) da un licenziamento dolorosamente bruciante: ma il tempo è un galantuomo  e stavolta, svicolando via, ha risistemato i conti con il destino, spalancando nuovi orizzonti. «Qui si può vincere, ci sono le condizioni per creare un ciclo: c’è una società solida, un presidente ambizioso e una città che vive di calcio».  El señor sì che se ne intende, con la gioielleria (le Liga e le Champions, l’Europa League e le coppe varie) che brilla sul comò e la voglia matta di rimettersi in discussione e consumare una rivincita ch’è umanissimo desiderio. Sei mesi per impregnarsi di Napoli, per coglierne i profumi ed inebriarsi, per costruire – lentamente ma gradualmente – qualcosa che resti nel futuro (però a lungo) e che possa spingere (però tra breve) a sussurrare: buon 2014.

Ora può analizzarlo dall’interno, Rafa, questo calcio italiano: tre anni dopo, come l’ha trovato?
«Cambiato ma non troppo. Le partite restano difficili, molto; ma mi sembra ci siano novità nelle impostazioni: c’è una tendenza maggiore al palleggio. Poi, la solita evoluta organizzazione, gare che nascondono insidie. E sempre una bella atmosfera».

E una spaccatura della classifica: quasi tre campionati in uno….
«La stagione è una soltanto e immagino che certi distacchi inducano a trarre conclusioni che però chi vive di calcio sa bene che sono affrettate. Stiamo partecipando ad una maratona, tutti: non è ancora finito il girone d’andata, restano da giocare ventuno partite».

Il Napoli è a cinque punti dal secondo posto e addirittura a dieci dal primo.
«E al cinque gennaio, alla ripresa, si giocherà Juventus-Roma».

Lo scudetto è un affare a due?
«Oggi è così, perché chi è davanti ha sempre ragione. Ma con sessantatré punti a disposizione è innegabile pensare che il destino debba essere ancora scritto. E questo vale per chiunque: per chi lotta al vertice, per chi insegue un posto in Europa, per chi vuole salvarsi».

La sua Napoli alla fine del primo semestre cosa le sembra?
«Dal punto di vista ambientale, una città straordinaria, ricca di storia, che ti fa respirare cultura ovunque. Dal punto di vista sportivo, meravigliosa: perché ha un senso d’appartenenza con pochi eguali. Per quanto ci riguarda, soddisfacente: abbiamo fatto bene, forse benissimo. Siamo usciti dalla Champions con dodici punti, ma giocandocela con Borussia Dortmund ed Arsenal; abbiamo conquistato trentasei punti in campionato, meglio degli anni scorsi, e però siamo dietro a Juventus e Roma: per far meglio di noi, insomma, i nostri avversari hanno avuto bisogno di realizzare imprese straordinari».

Restiamo nel mondo eccezionale: quel 3-3 tra Liverpool-Milan è un’impresa per la storia?
«Indubbiamente sì, visto lo sviluppo di quella partita dal valore specialissimo che aveva, essendo finale di Champions. Fu un’emozione indimenticabile per il Liverpool, uno choc terribile per il Milan. Penso che resti tra gli avvenimenti straordinari e dunque rientri tra le sfide memorabili».

Restiamo a Napoli: cosa vuol dire progetto?
«Impegnarsi, tutti assieme, per realizzare qualcosa che resti, per costruire un’idea di gioco e una squadra vincente. Ci sono le condizioni, perché ho trovato una base e un presidente ambizioso. Non si improvvisa un ciclo».

 In Italia c’è impazienza e Napoli aspetta da un bel po’…
«Qui esiste la volontà. Lo vuole De Laurentiis, lo voglio io, lo vuole Bigon, lo vogliono i calciatori e soprattutto la gente. La condizione necessaria per avere futuro è una società stabile: e ci siamo».

Vi aspetta il mercato…
«Del quale, come sapete, preferisco non parlare. Ma una cosa si può dire, senza tema d’essere smentiti: non è facile trovare in giro calciatori più forti dei nostri».

A proposito, qual è stato il più bravo che ha allenato?
«Escludendo dal giochino quelli che ho attualmente al Napoli, che per me sono i più bravi, posso dire: Raul del Real Madrid e Gerrard al Liverpool. Ma devo citare anche Alfonso Munoz Perez, avrebbe avuto un’altra carriera se la fortuna l’avesse assistito».

Il miglior allenatore al mondo?
«Posso dire che Sacchi, in Italia, ha inciso come pochi, anzi come nessuno: ha modificato un modo di pensare, ha introdotto una filosofia all’epoca innovativa. Sui contemporanei, ho l’imbarazzo della scelta: ma nella mia classifica, ci sono sempre Wenger, Del Bosque e Guardiola, ognuno per quel che ha saputo realizzare».

Non le chiederemo perché manchino Mourinho e Ferguson, ma ci incuriosisce capire come mai non replichi alle loro frequenti accuse.
«Io parlo in campo, non ho voglia di scendere in polemiche. E non credo che chi vinca tanto abbia più ragione di chi vinca meno. Fosse così, chi è destinato a vivere in società medio-piccole non avrebbe diritto alla parola. E non mi pare che sia questo un modello esemplare di vita».

Lo stile-Benitez è anche questo e quindi esiste?
«Sono me stesso, con i miei principi, con i miei valori, con la mia educazione, con il rispetto – sacro – che si deve agli altri».

 Poi esiste il metodo-Benitez.
«Capisco l’allusione: ognuno ha i propri sistemi di allenamento e penso che il mio passato abbia un suo peso nelle valutazioni. C’è chi sceglie il lavoro a secco, chi invece preferisce affidarsi al pallone: non sono, comunque, correnti di pensiero, ma esperienze personali che ognuno ha maturato e che porta avanti. Alla fine, comunque, sono i risultati che cambiano i giudizi, ahimé….».

E’ successo con la scelta di rinunciare al ritiro.
«Quando vinciamo, passiamo per chi sta rinnovando il calcio italiano; ma se perdiamo, bisogna tornare al passato, trovare la concentrazione, avvertire la tensione della partita…Il calcio vive certi luoghi comuni, legati ai momenti che attraversa una squadra: se vai male, sei in crisi atletica o hai perso la fame o addirittura non hai cattiveria. Sette giorni dopo, un successo cancella qualsiasi annotazione».

Da Valencia a Napoli sembra ci si imbatta nell’evoluzione di Benitez, in origine più attento alla fase difensiva ed ora maggiormente incline a valorizzare quella offensiva.
«Quel Valencia lì era una notevole e perfetta sintesi di equilibrio naturale, una miscela straordinaria che vinse segnando un gol in meno del Real Madrid, galacticos sempre, ma subendone dieci in meno. Un po’ ciò che accadde anche al Liverpool».

Vincenti si nasce o si diventa?
«Rispondo alla domanda e non parlo di me: ho il sospetto che si nasca e che però poi ci si debba perfezionare. M’è venuto il dubbio che, spesso, sia proprio una questione di genetica. E poi dipende dai casi e dai punti di vista, dalle situazioni: un secondo posto, per qualcuno, può rappresentare  un trionfo; al Real Madrid sarebbe un disastro».

In lei c’è l’uomo che si ribella al potere costituito: vinse al Valencia, dove nessuno c’è più riuscito, rompendo il «solito» duopolio Real-Barça.
«Mi piace mettermi in gioco e m’è venuto bene. Anche qui c’è una sfida meravigliosa da portare avanti e so che posso farlo con l’aiuto di chiunque, perché nessuno si tira indietro. Voglio metterci del mio, incidere sulla mentalità, riuscirci: insomma, voglio vincere, ma non vi dico cosa…».

Parlando di lei, dicono: è un uomo «ossessionato» dal calcio.
«E’ il mio lavoro, che vivo con passione. Poi il tempo, gli anni, l’esperienza, ti fanno valorizzare anche gli altri aspetti della vita. Dai importanza a ciò che magari in passato ti è sfuggito, cogli il senso intero della vita. Ma ci arrivi con gli anni. O se vai in un ospedale e osservi un bambino ammalato o se ti giri per le strade e t’accorgi del disagio di chi ha bisogno. Di un allenatore, di me in questo caso, viene spesso fuori solo l’immagine pubblica».

Le è mai venuta la tentazione di sfuggire a questo mondo di amabili pazzi e di concedersi una Nazionale?
«Mi è stato chiesto, ho ricevuto qualche proposta. Ma mi sento ancora giovane ed ho voglia della vita di club, della quotidianità. Ma un giorno per ora lontano potrei avvertirne il richiamo, penso di sì, soprattutto della mia Nazionale».

A proposito, questa storia della formazione che sfugge (persino) ai calciatori…
«La comunico poco prima che si vada in campo, quando c’è la riunione tecnica, ma non mi sembra ci sia nulla di straordinario. So che c’è chi ha bisogno di capire o addirittura  di sapere e chi no: io non lo faccio per divertirmi, ma perché voglio provare a percepire sino all’ultimo le condizioni e le sensazioni dei calciatori. La dicessi in anticipo, toglierei competizione, svuoterei di motivazioni chi magari intuisce ch’è fuori dagli undici».

Il calcio del Terzo Millennio è twitter, iphone…
«E un allenatore deve essere attento anche a queste dinamiche, riuscendo comunque a coltivare lo spirito dello spogliatoio. Io parlo con i calciatori, nel modo che mi viene più naturale in quel momento: in maniera spesso diretta, o anche con messaggi subliminali».

Il suo 2014 parte ad handicap, comunque…
«Saremo presenti su tre fronti e cercheremo di fare la nostra bella figura. Vero: la Juventus è dieci punti avanti e sta facendo qualcosa di sensazionale. Vero: la Roma ha cinque punti e va applaudita, perché ancora imbattuta e dunque è a modo suo unica. Ma lo sapete quant’è lunga una maratona?».

FONTE Corriere dello Sport

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