Però quel black-out finale… C’è ancora da migliorare, Benitez lo sa

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Il pelo nell’uovo è una specialità dei perfezionisti e il giorno dopo, a mente fredda, con la scorpacciata di immagini osservate, l’analisi può essere ancora più dettagliata, certo più ricca. La panchina a volte basta e altre no: e Napoli-Borussia Dortmund può essere integrata con tutto quel che offrono le tv, certo non poco. Il trionfo resta e però, intrufolandosi tra le pieghe di un match sontuoso che ha dimostrato la capacità di quel Napoli di interpretare Benitez, qua e là emergono piccole e grandi paure avvertite in quel finale da evitare ai deboli di cuore.

I fatti separati dalle opinioni sono nella rilettura della cronaca in versione tedesca che per un’ora offre solo l’opportunità di Lewandowski (24′ pt), stregato da Reina. E però, poi, con il 2-0 in mano, il Napoli qualcosa ha concesso ad un avversario in dieci, peraltro un p0’ sguaiato nel suo atteggiamento, con troppi attaccanti e un centrocampista, Bender, scivolato a fare il centrale al posto di Hummels. Minuto 68′, quando Insigne ha tolto la ragnatela dall’incrocio dei pali del Borussia Dortmund: traversa di Aubameyang, però è solo un avviso che muore nella notte.

I dieci minuti che modificano l’umore, che spingono Benitez a riflettere con i suoi, sono invece gli ultimi e capitano, non a caso, quando sono avvenuti due cambi su tre, quando il messaggio probabilmente che arriva alla squadra induce a frenarsi 0 a contenersi 0 a controllare. Certo, qualcosa è mutato e (86’) ci vuole Britos per fermare ancora Aubameyang lanciato nell’una contro uno e solo con l’uruguaiano in opposizione. Poi, e siamo all’88‘, è 1-1 ed è palpitazione, quasi un giallo(nero) che spinge a trattenere il fiato sulla punizione di Reus (90’), uscito dal letargo e ricacciato via da Reina.

Il black-out che non ha prodotto danni sostanziali – piccola e però percepibile ansia – rappresenta argomentazione di una radiografia che viene estesa sull’intera sfida: la domanda che sorge meccanica è in quella metamorfosi finale, nelle ragioni d’una sofferenza mai avvertita nel corso dei restanti ottanta minuti e però vissuta in seicento secondi da riattraversare. Forse interrogando la testa (innanzitutto quella), che inviati input sbagliati: senso d’appagamento o semplicissimo, banalìssimo calo di concentrazione, chissà? Però meglio studiarsi.

FONTE: Corriere dello Sport

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