Tra indifferenza e orgoglio popolare, il difficile rapporto tra Napoli e la Nazionale

240934753_30657fe3fb_zIl 15 Ottobre il San Paolo tornerà ad essere “Casa Italia“. Dopo sette anni di lontananza, voluta o causale, si ritorna nella terra dell’incongruenza, il luogo in cui un leggero vento di brezza è capace di capovolgere gli equilibri e di rendere ostile il posto che la storia, nei secoli, ha contribuito a far diventare la patria di poeti e navigatori. Un rapporto difficile quello tra la nazionale ed il popolo napoletano, che storicamente ha avuto negli ultimi decenni più occasioni per mettere in discussione il proprio spirito nazionalista, minato , prima di ogni altro condizionamento, da quella passione infinita che un calciatore argentino è stato capace di trasmettere, riuscendo a carpire l’anima e il cuore della gente, negli anni in cui ha incantato il mondo attraverso la squadra che rappresenta questa grande quanto contraddittoria città.

A tempi dei mondiali del ’90 giocati in Italia, la polemica si infervorò grazie soprattutto alle dichiarazioni che l’inimitabile quanto furbo Maradona rilasciò qualche giorno prima della semifinale tra la sua nazionale e l‘Italia, che il destino volle far capitare proprio nella città della discordia, in una Napoli che venne presa di sorpresa e messa al cospetto di una realtà amara ma emblematica, il dover scegliere chi tradire, se la propria patria o se la terra del suo campione più amato, che spesso nel mondo ha gridato a tutti il potere e la valenza dei napoletani e di un sud alla ricerca del famigerato “riscatto” nella vita ma che passava attraverso i trionfi calcistici. Quel giorno si pianse in ogni caso, vuoi per l’eliminazione dell’Italia, vuoi per aver spinto perché gli argentini vincessero, per poi scoprire che in fondo, quel briciolo di legame patriottico che ancora legava agli azzurri d’Italia avesse reso triste sventolare una bandiera che non fosse il proprio, caro tricolore.

Ovviamente l’opinione pubblica ci andò giù duro, mettendo Napoli al centro delle ragione del mancato passaggio in finale, evidenziando una spaccatura tra i tifosi, i quali per buona parte tenevano a Diego e alla sua Argentina. Atteggiamenti da stigmatizzare, propensione a tenere di più per lo straniero che per la propria terra, mancanza d’affetto verso la patria che ha dato lustro nei secoli ad un popolo di emigranti che, in fondo, erano pur sempre italiani, queste le accuse più concrete, molte delle quali tesero ad estremizzare ciò che era accaduto. La verità fu che l’Italia perse immeritatamente, non tanto per come andò la gara contro gli argentini, ma piuttosto per un cammino fantastico che l’aveva portata a giocarsi la semifinale contro una squadra che non aveva di certo brillato fino a quel momento. Ma il fato del pallone ha poco a che fare con ciò che accadde sulle tribune, ciononostante la sorte volle enfatizzare il tutto attraverso un risultato bugiardo che amplificò non di poco il “dolore sportivo” degli italiani tutti.

A distanza di più di vent’anni, un altro avvenimento che si può certamente congiungere a quel mancato idillio, quello stentato feeling tra il popolo partenopeo e ciò che rappresenta l‘Italia. Ricordiamo tutti i fischi durante la finale di coppa Italia a Roma contro la Juventus, dove molte delle cariche politiche presenti in tribuna, in primis l’allora presidente del senato Schifani che urlò allo scandalo e rimase sconvolto dall’atteggiamento della tifoseria azzurra. Quei fischi furono l’effetto di una caterva di episodi ai limiti della xenofobia che videro coinvolti i tifosi azzurri, che, quasi per ripicca, decisero di fischiare poiché probabilmente, in quel momento, non sentivano di appartenere agli italiani in quanto “indesiderati” oppure italiani “d’occasione” a piacimento della situazione che lo richiede. Ebbene, il giorno postumo alla gara fu uno dei momenti peggiori per festeggiare la vittoria del trofeo, macchiata, a detta della maggior parte degli addetti ai lavori, da quel gesto meschino e disdicevole, atto ad offendere l’italianità di un popolo e a gettare fango sul quel senso di patriottismo che dovrebbe istintivamente sorgere spontaneo a spegnere qualsivoglia polemica, salvaguardando l’inno nazionale, che rappresenta l‘Italia in quanto patria, senza considerare alcun discorso politico.

Senza cadere nel gioco delle parti, a distanza di tempo che, si sa, è il miglior alleato quando si tratta di gettar acqua sul fuoco delle polemiche, oggi abbiamo la necessità di concentrarci su ciò che, da qui ad un mese, accadrà in città, ovvero il ritorno della nazionale italiana. Lontano dalle prese di posizione ci sentiamo in dovere di segnalare questa necessità di conquistare nuovamente l’amore per la squadra della nazione intera, nonostante tutte le contraddizioni che la storia, sociale e politica, ci ricorda continuamente ed incessantemente, principale indiziata di quella tendenza ad ignorare tutto ciò che concerne la squadra dell’Italia, i risultati, i convocati, gli eventi che la vedono scendere in campo, o addirittura, nelle rare occasioni in cui c’è stato un richiamo, volontario o casuale, alla nostra cara patria, a respingere con gesti inconsulti quel mero tentativo di ricordarsi che Napoli appartiene a questa nazione solo nelle occasioni di comodo, dimenticandosi del sud nelle occasioni che contano.

Pertanto, la rubrica “Io non ci sto” di questa settimana volge lo sguardo alla necessità di maturare una nuova visione della realtà, che probabilmente ha come principio quello di partire dallo spirito di appartenenza che in ognuno di noi è presente, anche se assopito, mettendo da parte le questioni politiche e le intolleranze sociali intrinseche di una xenofobia che ha radici in un odio incondizionato, asettico, crudo, nato probabilmente da quella necessaria ricerca di un capro espiatorio dei mali di questo paese. Che sia ben chiaro che a giocare è la nazionale italiana, e non tutto ciò che la si vuol far rappresentare, ed una nuova scintilla, il tentativo rinnovato di innamorarsi nuovamente della squadra della propria patria potrebbe riqualificare il popolo partenopeo attraverso una crescita che può essere letta come voglia di sentirsi parte di un cambiamento, svestendo i panni delle vittime di un sistema che rema continuamente contro.

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