Effetto Sla, Borgonovo l’ultima vittima, ma morire non vuol dire dimenticare

borgonovo slaBorgonovo Sla \ Questa settimana “Io non ci sto” su ciò che una morte mette allo scoperto, e su come la morte sia l’unico mezzo convincente per cercare di sensibilizzare le istituzioni a fare un po’ di chiarezza sulla vicenda Sla, sclerosi laterale amiotrofica, malattia neurodegenerativa che costringe le vittime alla paralisi totale alla fine del letale corso del morbo. Molti calciatori sono stati vittime di questa malattia che non ha ancora una causa, ma che è localizzata nella sfera calcistica e sembri risparmiare gli atleti degli altri sport. Come sia possibile e cosa sia in grado di scatenarla, come detto, non è ancora dato sapere, le ricerche proseguono e le domande senza risposta sono ancora tante .

Il pm Guariniello aveva cominciato un percorso di indagini, ma la mancanza di indizi, ma anche di persone in grado di spingere per tirare fuori dalla polvere qualcosa che avesse un senso, ha fermato questo tentativo di chiarire le sorti dei tanti calciatori colpiti da questo male, vittime anche della negligenza di coloro i quali dovrebbero fare opera di perseveranza e scovare ad ogni costo e con tutte le forze possibili notizie utili a mettere chiarezza in una delle vicende più spinose degli ultimi anni di sport. Assieme a Borgonovo, se ne sono andati anche Signorini, ex colonna del Genoa, Lombardi, ex Avellino, e poi ancora Rognoni, Segato, Soldan, Canazza (quest’ultimo compagno di squadra di Stefano ai tempi del Como), Vincenzi, Nanni, Minghelli, l’arbitro Nuvoli e molti altri ancora, tutti orfani della verità e deceduti nella speranza, oltre che nella vita.

Dagli anni ’70 ad oggi la “stronza” , così ribattezzata da Borgonovo, ha colpito senza pietà giocatori di calcio in maniera pressoché vaga. Le uniche casistiche riconducibili, tangibili e sospette sono le morti, cinque, di ex sampdoriani, così come diversi giocatori del Como (in concomitanza di Borgonovo, Canazza e Lombardi si ammalarono negli anni precedenti anche Maurizio Gabbana, Celestino Meroni, morto nel 2001, e Piergiorgio Corno, tutti ex Como). Si è tentato di dare una spiegazione in relazione alla zona paludosa su cui sorse lo Stadio Senigallia di Como, agli inizi del novecento, ma nulla riesce a trovare conferma se non sospetti senza prove inconfutabili che attestino le possibili cause della malattia. Negli altri casi, come è lecito pensare quando nulla aiuta a venire a capo nella nostra bella Italia, si è pensato che quei calciatori facessero uso di sostanze in grado di alterare le funzioni organiche e le prestazioni sportive, il doping per dirla in una sola parola, un modo come un altro per offendere la memoria di quelle persone che hanno dato la loro vita per qualcosa di cui non si conosce ancora la causa, una malattia infame e spietata che non consente alle proprie vittime nessuna possibilità di ripresa.

Che la moglie di Stefano, la Signora Chantal, possa racchiudere nel dolore per la scomparsa del marito quell’indifferenza verso queste illazioni, con la speranza che l’associazione che sovvenziona la ricerca sulla malattia possa andare avanti anche senza una delle figure più emblematiche degli ultimi anni per la lotta alla sofferenza, un uomo in grado di aiutare, attraverso le sue immagini, tutti coloro che soffrono a non mollare mai. Che lo stato si dia una mossa e che qualcuno possa riuscire a portare avanti le indagini per mettere la parola fine ai dubbi e zittire i soliti meschini, adulatori dell’approssimazione e vittime della sindrome delle facili conclusioni, quelle comode, quelle che si danno con noncuranza, ma che fanno più male di una morte, poiché uccidono anche ciò che, in vita, queste persone, sono state. Che i colpevoli vengano individuati, che qualcuno parli per evitare che altri possano cadere.

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