Allenatori stranieri, storie e poesie di mezzo secolo di panchine azzurre

napoli allenatoriNapoli Allenatori stranieri  \ In procinto di abbracciare un nuovo allenatore, con più di una possibilità che quest’ultimo sia straniero, c’è una storia da narrare. Una storia, una lunga e gloriosa storia di allenatori azzurri non italici, gente con passione e preparazione, rafforzata da esperienze intense e amore verso una città che li ha adottati e li ha resi propri. Di tutti ricordiamo questo, per ognuno di essi il concetto di straniero si è cancellato nel giro di poche settimane, e l’affezione verso lo spirito goliardico e colorito di una popolazione rivolta al sorriso, abile a nascondere i ben noti problemi sociali, è divenuto il principio fondamentale per amalgamarsi con questa magnifica gente.

Possiamo esordire con l’esperienza, seppur brevissima di Attila Sallustro sulla panchina azzurra, era il ’61 e subentrò ad Amadei. Il paraguaiano naturalizzato italiano portò con sé la scia delle 108 reti messe a segno in azzurro, ma non fu in grado di convincere l’esigente dirigenza azzurra che gli preferì Fioravanti Baldi.

Qualche anno dopo arrivò una dei tecnici più amati, anch’egli arrivava da una lunga esperienza come calciatore azzurro, parliamo dell’argentino Bruno Pesaola, anche lui naturalizzato italiano, amante di Napoli e dei napoletani, tant’è che vive ancora nel quartiere del Vomero, da dove si gode dall’alto lo spettacolo che la città offre. E’ stato spesso un tappabuchi, ancora più spesso un salvatore, basti pensare che nel ’61-62 è capace di subentrare a Baldi che aveva portato la  squadra ai limiti della retrocessione dalla serie B, alla promozione in A e alla vittoria, ancora tutt’oggi storica, della Coppa Italia, trofeo mai vinto da una compagine della cadetteria. Poi addii, poi ritorni, un storia romantica di un uomo che non ha mai saputo dire di no quando la società ne ha avuto bisogno (dopo il ’63 “il petisso” ha allenato anche dal ’64 al ’68, dal ’76 al ’77, dall’82 all’83). Celebre l’immagine di Pesaola in panchina che stringe un rosario mentre Ferrario calcia un rigore che risulterà decisivo per la salvezza (all’epoca allenava con il compianto Rambone). Altrettanto celebre una frase nel post partita contro l’Inter di Herrera a Milano, quando un giornalista gli fa notare che la squadra in campo era messa male. E Pesaola “- io l’avevo messa bene, poi l’arbitro ha fischiato l’inizio e si sono mossi tutti...-“.

Altra passione viscerale fu quella di Luis Vinicio, brasiliano di Belo Horizonte, ma ben presto vero e proprio partenopeo ad hoc. Dopo la carriera da calciatore (69 gol in azzurro) si sedette sulla panchina azzurra dal ’73 al ’76, sfiorando la vittoria del campionato, vinto dalla Juve per soli due punti. Ritornò a Napoli dal ’78 all’80 senza particolari ricordi, di pari passo alle velleità ridimensionate di una società in bilico. Ha vagato per diverse panchine, anche di serie minori, lasciando un ricordo professionale di alto spessore. Un’altro oriundo si è affacciato sulla panchina partenopea, parliamo del brasiliano naturalizzato italiano Angelo Benedicto Sormani, di passaggio per poche giornate nella travagliata stagione ’79-’80,  quando, all’epoca, si occupava delle giovanili. Da giocatore è passato da Napoli tra il ’70 ed il 72 mettendo a segno 7 reti.

Con un salto temporale di circa quindici anni si è passati all’esperienza del serbo Vujadin Boskov, istrionico ed espansivo tecnico, rimasto alla storia per aver portato il tricolore a Genova, sponda blucerchiata. A Napoli ha allenato dal ’94 al ’96 al cospetto di una squadra senza pretese e con elementi decisamente troppo modesti per fare di più. Fu capace comunque di portare gli azzurri in Coppa Uefa e di concludere in modo dignitoso campionati costellati da grosse difficoltà gestionali di una società sempre più assente. Restano nella storia le sue frasi ricche di satira dovuta all’ovvietà di alcuni concetti. Sentiremo ancora spesso dire “Un giocatore con due occhi deve controllare il pallone e con due il giocatore avversario“, la ben nota “Rigore è quando arbitro fischia” oppure “Palla a noi, giochiamo noi, palla a loro, giocano loro“, tutti concetti che avevano intrinseca un’intensità professionale capace di stemperare gli animi e di somatizzare situazioni altrimenti altamente critiche.

Si è poi passati al boemo Zdenek Zeman, pioniere di un calcio ultraoffensivo, in barba ai tatticismi e ai catenacciari di cui la nostra scuola ne è stata la patria, uomo carismatico e in grado di portare avanti battaglie di conseguenza alle sue dichiarazioni, forti e taglienti come rasoi. A Napoli ci arriva nel momento sbagliato, nel 2000, quando la società è appena salita in A ed il suo presidente, Corbelli, è un novizio per ciò che riguarda vicende calcistiche, evidenziate in una piazza come Napoli. Andrà via dopo due punti in sei partite, lasciando la squadra ed un progetto fatto a sua immagine e somiglianza, pertanto difficile da gestire per i tecnici che quell’anno si sono susseguiti. Il risultato sarà una nuova retrocessione, con tanti saluti ad un progetto che forse con maggiore tenacia e perseveranza avrebbe dato risultati decisamente diversi. Il boemo è stato l’ultimo tecnico straniero a sedersi sulla panchina azzurra. Non ci resta che dire…avanti il prossimo !

 

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