L’arte di essere infelici

946507_10201194061792975_813674707_nDi quelle che gli uomini apostrofano virtù, noi napoletani ce ne riconosciamo tante, a volte troppe, a volte vittime di noi stessi quasi nessuna. Sempre il sole, la musica, il mare, la gaiezza, la battuta pronta, la leggerezza propria di chi è abituato a contemplare la mutevolezza delle onde, il vento che sa riconoscersi eternamente variabile.

Ma abbiamo un’altra arte, fastidiosa come un meriggio afoso di luglio, da tenere segreta come un “vizietto” del parroco, da confinare in un’accidentalità che rende più vera la regola e il luogo comune.
Noi napoletani siamo pittori perfetti dell’infelicità, Caravaggi del chiaroscuro dell’anima. Ma un’infelicità sottile, che mentre si dispiega canta però il suo contrario, come la lumaca che gettata nel fuoco sfrigola, e pare ridere, e invece muore.

Così ieri pomeriggio ho letto dietro i corpi che divenivano trasparenti un dolore acuto e aspro, una nota che mentre lievitava andava a male, corrosa dal verme della pasta. I fuochi prima dell’inizio, le sagome che si sporgevano sul davanzale del delirio, le parole del Presidente che ricordavano un profeta solo che i fedeli hanno rinunciato a credere “inviato”; tutto questo aveva l’odore acre di un incenso funebre prima del sacrificio. E i sacrificati eravamo noi, i nostri cuori, le nostre memorie di un recente passato coltivato da eroi che riscattavano la marginalità impostaci.

Il giro di campo, un’immagine troppo vicina al giro della morte, al miglio verde del condannato. Quanti saluti, ma non erano di arrivederci, erano di commiato. Strano. Si lascia qualcosa quando quella cosa ormai è divenuta un peso, un filo di cotone che intralcia il passo; e la si lascia sempre con il cuore saldo, festanti per libertà che di nuovo ci accoglie nella sua dimora dimenticata. Invece ieri non era così, ed è questo l’assurdo, l’impura arte di rendersi infelici che appartiene al popolo napoletano e a chi con questo popolo giace a letto.

Cavani che allunga la maglia serrato in due muraglie umane felici e disperate, i tifosi che alzavano le braccia all’azzurro come a cercare la soluzione di una scena senza senso: si festeggiava e si piangevano i morti, si cantava e si diceva addio al generale e al miglior soldato. A che vantaggio conquistare una terra che domani ci sarà di nuovo strappata? Ma cantavamo, come in una sequenza imposta dal cuore colmo di lacrime e di inutili speranze. Sfilava l’esercito, la battaglia era finita, i fiori che gettavamo ai piedi degli eroi nel breve volgere di una notte li avremmo sopresi marci, buoni solo a ingrassare la terra, evitati perfino dalla rugiada.

Che tristezza ieri, eppure quante grida. Un sentimento di sospensione che faceva male, come quando davanti ad una caduta non si sa se ridere o piangere. Ci siamo detti felici perchè non potevamo dirci la verità. Abbiamo mentito soffocando con la stoffa della bandiera il neonato che stava piangendo. Solo assassinando le nostre paure e i nostri dolori potevamo ridere. E lo abbiamo fatto, e lo abbiamo voluto.

Anche questa è un arte, sì, l’arte cruda e tragica dell’infelicità.

Carlo Lettera
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