Denis, il leader dell’Atalanta con un passato azzurro

1131955-denisQuando German Gustavo Denis  lasciò gli azzurri nell’estate del 2010 aveva siglato 13 gol: non tantissimi, ma nemmeno pochi. Poi vanno aggiunti gli altri due firmati in Coppa Uefa. In fondo uno come lui fa sempre comodo. Ed è per questo che, probabilmente, ogni tanto tra i tifosi napoletani c’è chi si rammarica per quella cessione. Figurarsi di questi tempi, con i problemi improvvisi in attacco di Cavani e compagni. Un centravanti con le caratteristiche di Denis è utile per far salire la squadra, per tenere il pallone, per lottare nel cuore delle difese avversarie. E dà pure il suo contributo in fase difensiva. Non sarà un fine ricamatore, d’accordo, da lui non ci si possono aspettare dribbling e super-invenzioni, ma la sostanza c’è. E si sente.

Lo dicono gli 11 gol realizzati finora in campionato che si aggiungono ai 16 della passata stagione con la maglia nerazzurra. Un record per lui in Italia: al Napoli al massimo era arrivato a quota 8. Ma è cresciuto molto rispetto agli anni partenopei: lo scorso anno fece 4 assist, quest’anno è già a quota 5. Che sia divenuto poi essenziale, come mai né con Reja, né con Donadoni o Mazzarri e neppure con Guidolin che lo ha avuto a Udine, lo dice pure il gioco dell’Atalanta che si basa sui movimenti e sulla fisicità dell’argentino. In effetti, nei moduli offensivi di Colantuono, tutti possono alternarsi. Ma lui no. Lui è un intoccabile. Sempre titolare con l’Atalanta. Tranne una volta, contro il Palermo: ma entrò e fece gol.
È il giocatore più utilizzato da Colantuono, persino più del portiere Consigli. Non capita molto spesso in serie A. Col Pescara, domenica scorsa, si è sbloccato: una doppietta che rilancia lontano dalla zona salvezza l’Atalanta e che gli consente di tornare al gol su azione. Una sola rete per lui negli ultimi tre mesi. Un piccolo dramma, per un attaccante.

A Napoli non sarà una pomeriggio come altri: qui, in questo stadio ha vissuto le sue prime gioie italiane. Al fianco del Pocho Lavezzi e di Quagliarella. Lo pescò Pierpaolo Marino nell’estate del 2008 all’Independiente. Al contrario di Lavezzi, arrivato 12 mesi prima, di lui si sapeva molto perché, tra Clausura e Apertura in Argentina aveva segnato 27 gol. Lo presentarono come l’erede di Crespo. E non era una esagerazione. Tant’è che Diego Maradona, allora ct della Seleccion, lo convocò in nazionale. Quattro volte. Un passato nel Cesena in serie C 2002-2003 con soli 3 gol. Religiosissimo, quando era al Napoli era solito frequentare il Santuario della Madonna di Pompei e infilarsi un santino di Sant’Espedito sotto i parastinchi. Un filo di tristezza, amante del tango. La sua è una partita, ma anche un’altra pagina del suo romanzo. I suoi cingoli sono passati sopra il Napoli nell’aprile del 2011, quando giocava nell’Udinese. Sconfitta dolorosa per 2-1 e resa nella lotta per lo scudetto degli azzurri. Poi, un altro gol l’autunno dopo, con l’Atalanta. Qualche rimpianto c’è sempre stato. Ma nell’agosto del 2010 il foglio di via lo firmò direttamente De Laurentiis: «Non fa parte del nostro progetto di crescita». Cavani era arrivato da pochi giorni e il patron lo aveva già promesso al suo amico Pozzo.

Fonte: Il Mattino

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