Armando Connola, ex calciatore della Berretti del Napoli, racconta i suoi 7 anni in azzurro

Il Napoli attuale ha il volto di Lorenzo Insigne: un ragazzo cresciuto tra le braccia di Parthenope coltivando un sogno intriso d’azzurro.

Ma esiste anche un altro Napoli, quello che ci ha raccontato Armando Connola, un ragazzo come tanti, nato anche lui con il calcio nel sangue e quel sogno nel cassetto, non un sogno, ma “il” sogno, quello condiviso da miriadi di scugnizzi, proprio come Insigne, che crescono prendendo a calci un pallone tra i vicoli dei quartieri, in periferia, in città, ed è il sogno che colora d’azzurro i loro desideri e la loro passione.

Armando quel sogno lo ha accarezzato per 7 anni, 7 lunghi anni, nell’ambito dei quali ha militato nella Berretti del Napoli.

Armando ha iniziato la sua esperienza in azzurro quando è stato rifondato “il nuovo Napoli”: “il Napoli delle meraviglie”, quello di De Laurentiis e Marino.

Era la stagione 2003/2004 ed Armando aveva 11 anni quando partecipò al raduno con primo torneo annesso, organizzato dal Napoli a Roma, per visionare tutti i giovani talenti confluiti da tutta Italia per essere reclutati in quella che sembrava essere la porta principale dalla quale Armando e tutti gli altri dovevano accedere al sogno.

Armando, terzino destro, era tra i 45 baby talenti ingaggiati dal Napoli in quell’occasione e suddivisi, poi, in due squadre.

“Quando abbiamo iniziato gli allenamenti, durante la prima stagione, non avevamo un campo nostro, ci allenavamo su un campo in terreno, con tutti i disagi ciò comporta – racconta Armando, mentre un velo di nostalgica amarezza ne scandisce le parole – ero in squadra con tutti i ’93, successivamente siamo stati amalgamati con i ’94 e poi con i ’91. Per 4 anni abbiamo lavorato sotto la guida di mister Cimmaruta, susseguito poi da Ciro Muro ed, infine, è arrivato Mister Felice Mollo con il quale abbiamo vinto il Campionato. Eravamo un’ottima squadra, abbiamo vinto contro tutte, ad eccezione della Roma che, a mio avviso, è il settore giovanile meglio organizzato e più all’avanguardia della realtà calcistica italiana. Non è corretto affermare che la Coppa Italia è il primo trofeo vinto dal Napoli targato De Laurentiis, il primo trofeo del “nuovo Napoli” lo abbiamo vinto noi della Berretti, anche se nessuno lo sa. In quell’occasione, il presidente De Laurentiis ci ha premiato portandoci a cena a fine anno, ma, dentro di noi, sapevamo già che dovevamo trovarci un’altra squadra.”

Cena amara per gli azzurrini, quindi, che masticavano delusione, mentre la società ne elogiava i successi estrinsecati sul campo di gioco.

Ed, infatti, la S.S.C.N., nell’arco dell’ultimo anno, ha deciso di tenere in vita solo i Giovanissimi, gli Allievi e la Primavera, svincolando, così, all’incirca 200 ragazzi che hanno visto il sogno sgretolarsi sotto i loro occhi delusi ed impotenti.

Tra quei 200 ragazzi, c’era anche Armando.

E Armando non ha potuto fare altro che riporre la sua delusione nella valigia che lo ha accompagnato in Valle D’aosta, dove lo scorso gennaio è approdato per continuare ad inseguire il suo sogno vestendo la maglia del Saint Cristophe, squadra militante nel campionato di Serie D : “Sono stati 5 mesi ricchi di sacrifici, ero in una città lontana 1.200 chilometri da casa e mi è stato possibile ritornare a Napoli 4-5 volte, anche se è stata una bella soddisfazione vincere il Campionato….I posti a disposizione sono pochi e i ragazzi che coltivano il mio stesso sogno sono troppi- afferma Armando, ritornando con la mente ancora e sempre lì: a quando scendeva in campo indossando la maglia azzurra – se non arrivi ai massimi livelli, in serie A o in serie B, la strada è sempre in salita. Proporsi è facile, affermarsi e riconfermarsi è difficile, per riuscirci devi fare la differenza. La massima aspirazione per un ragazzo che vuole diventare un calciatore o che almeno vuole giocarsi tutte le carte per riuscirci, è quella di militare in serie C che, ormai, è una vera e propria vetrina per giovani calciatori.”

La sua mente, i suoi ricordi, il suo cuore, la sua anima, sono rimasti imprigionati in quella maglia, i suoi occhi lo sanciscono con inequivocabile fermezza quando racconta i suoi anni trascorsi in azzurro: “Ogni anno, sui giornali, alla radio o in tv, ascolto il Presidente parlare del settore giovanile, della sua volontà di mettere su “una Cantera napoletana”, “la Scugnizzeria”, ma, di concreto, non accade mai nulla. Il grande merito di De Laurentiis, però, è quello di aver preservato il calcio a Napoli, ha salvato la società e, se ciò non fosse accaduto, tutti i ragazzi talentuosi di questa città sarebbero andati via.”

Poi, la sua mente inizia ad attingere aneddoti dall’album dei ricordi: “Noi della Berretti avevamo il campo da gioco, nient’altro. Mentre, quando ci confrontavamo con i nostri coetanei che giocavano a Torino, Milano, Roma rimanevamo sbalorditi da quello che ci raccontavano: palestre, piscine, massaggiatori, tutti i comfort e i servizi di cui beneficiano i calciatori professionisti, perché loro erano già trattati come tali, anche a 10 anni. Ricordo, in particolare, che il passaggio dallo sponsor “Diadora” a “Macron”, ci creò non pochi problemi, poiché ci venne distribuito un solo kit completo di tutto, comprensivo di un unico completino da utilizzare per l’allenamento e se non lo indossavamo ci multavano. Però, oggettivamente, come ci si può allenare tutti i giorni sempre e solo indossando la stessa maglietta?…I ragazzi delle altre squadre giovanili, all’uscita di scuola, tornavano a casa, pranzavano, riposavano e verso le 17 si recavano al campo per fare gli allenamenti. Per noi era tutto diverso: all’uscita di scuola, mangiavamo un panino al volo, in autobus, perché alle 15 dovevamo essere sul campo, pronti ad iniziare gli allenamenti e alle 17 dovevamo cedere il posto ai ragazzi della scuola calcio.
Loro partivano per il ritiro pre-campionato, com’è solita fare una vera squadra di calcio, mentre la nostra preparazione iniziava a settembre e non comprendeva le classiche fasi di una preparazione da squadra professionistica, era molto semplice e grossolana, non siamo mai andati in ritiro e, a mio parere, è una cosa sbagliatissima, perché per formare ed educare un giovane, il ritiro è fondamentale, dal punto di vista fisico, ma anche sotto il profilo mentale ed è altrettanto importante per creare lo spirito di gruppo, per affiatare la squadra.

Quando ci trovavamo al cospetto di simili realtà che erano delle squadre di serie A in miniatura, riuscivamo a vincere grazie al cuore, quella era la nostra forza.

Solo i calciatori napoletani giocano con il cuore. Nei nostri avversari, infatti, riscontravamo che la motivazione per la quale scendevano in campo era quella di fare soldi, loro lo vivevano da subito come un lavoro, una mentalità completamente diversa rispetto alla passione che, invece, muove le gambe di un napoletano, calciatore del Napoli.

Io ho giocato sempre e solo per amore della maglia, poi essere a bordocampo come raccattapalle, vedere i giocatori, sono emozioni uniche che è sempre bello vivere, però non abbiamo mai giocato con la prima squadra, cosa normale per tutte le realtà giovanili dei grandi club. Il problema reale è che a Napoli manca l’educazione calcistica.”

E’ inevitabile che il pensiero voli verso quello scugnizzo che sta respirando a pieni polmoni quel sogno: Insigne rappresenta senza dubbio una motivazione in più per i ragazzi napoletani che sognano di fare i calciatori, ha realizzato il sogno dei ragazzi di tutta Napoli, è un simbolo per quelli come me che amano il calcio e vivono per il calcio, quest’anno guarderò il Napoli soprattutto per vedere giocare lui. Era un talento fin da quando era piccolo, ma grazie a Zeman ha raggiunto l’apice della sua bravura, diversamente, non so se oggi giocherebbe nel Napoli. Qui manca la tranquillità per proporre i ragazzi in prima squadra, come fanno il Milan e le altre big del calcio italiano.”

Suggestiona parlare con un ragazzo che è stato repentinamente trasformato da protagonista a narratore del suo sogno: “Riguardando indietro, penso che un contratto per la serie C, nel corso di quei 7 anni, poteva essere fattibile, non solo per me, ma soprattutto per molti altri ragazzi più in gamba di me, a maggior ragione se si pensa che sui campi del Mariano Keller venivano osservatori da Milano, da Roma, perfino da Barcellona per vederci giocare. Avrei accettato qualsiasi compromesso pur di rimanere a Napoli e giocare con il Napoli. Se un giorno dovesse arrivarmi una chiamata da parte del Napoli, accetterei di corsa, è il sogno della mia vita giocare con il Napoli.

Gli occhi di Armando, quando raccontano l’amore che nutre per la maglia azzurra, s’irradiano di una luce speciale, capace di imprimere sincera tenerezza in chi è in grado di carpirne la purezza, l’autenticità.

E’ una luce che esprime meglio di mille parole, un amore vero, autentico, avulso dal cinismo del denaro e dalla proverbiale volgarità del business.

E’ una luce che nasce dall’intreccio tra la magnificenza che contraddistingue l’imponenza di un sogno che rischia di protrarsi all’infinito e la brama del desiderio di toccarlo con le mani e radicarlo nella vita reale.

E’ una luce che si incupisce quando la mente di Armando ritorna al passato e ripercorre quei 7 anni, perché si sporca dell’amarezza della delusione e lascia intravedere una cicatrice ancora non rimarginata scalfita sul suo animo, ma non abbastanza profonda da indurlo a rigettare quell’amore, strappandoselo via, perché sarebbe un atto innaturale, come sradicarsi il cuore dal petto con le proprie mani. Quella passione è parte integrante della sua stessa essenza, della sua umanità, della sua vita.

Quando gli ho chiesto cosa rappresenta il calcio per lui, Armando ha replicato: “Il calcio per me è una malattia, è la mia ragione di vita.” E quella luce radiosa regnava sovrana nel suo sguardo, imprimendo alle sue parole un timbro di inattaccabile sincerità.

Per gli Insigne di domani, ma anche per gli Armando Connola di oggi, è doveroso auspicare che la società azzurra si attivi per allestire un settore giovanile competitivo in toto: nell’organizzazione, nello staff, nelle strutture, capace di essere all’altezza dei sogni, del talento e soprattutto dell’amore incondizionato che infervora la passione di questi ragazzi che, nonostante siano chiamati a sostenere sacrifici onerosi per inseguire quel sogno, continuano a rimanervi aggrappati con le unghie e con i denti e che, nonostante siano sbeffeggiati dalle circostanze, dal destino, dalla rigida e cruda austerità di una porta sbattuta in faccia, continuano a giurare amore incondizionato a quella maglia, che è e continuerà eternamente ad essere la loro ragione di vita.

La maglia azzurra è fonte di amore e di vita per Lorenzo Insigne, ma anche per Armando Connola e per gli infiniti altri figli di questa terra che attendono di divenire gli interpreti del calcio partenopeo di domani.

Luciana Esposito

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