Le confessioni degli Eleven men out

Sul film Eleven men out, di Robert Ingi Douglas

 

Nessuno ha ancora capito come parlare di omosessualità. O forse chi l’ha capito ne parla senza volerlo, oppure non ne parla affatto, affrontando la propria natura come fosse un istinto primordiale alternativo e un invito a una nuova normalità. E il cinema ne ha raccontate parecchie di storie al riguardo, e il calcio è un mondo, come tutti i mondi, che, per quanto si dica in giro, non è estraneo alla faccenda, ammesso che l’omosessualità possa essere trattata come tale, come una questione da agenda aziendale o da tema della frustrazione.

“La normalità sarebbe divampata dentro me, simile a una rivelazione divina.”, scrive così Yukiuo Mishima nelle Confessioni di una maschera, romanzo simbolo della dignità morale e civile di una identità sessuale confinata in una specie di categoria, già per questo lontana ed estromessa dalla leggerezza della disinvoltura.

“Eleven men out”, diretto da Robert Ingi Douglas, è un film del 2005, che fonde calcio e omosessualità, in una storia privata che poco a poco assume i contorni di una “faccenda” pubblica. Ambientata in Islanda, la pellicola narra le vicissitudini di un calciatore professionista, Ottar Thor (Bjorn Hlynur Haraldsson), che milita nel KR, il Reykjavik FC, la squadra islandese più importante.

Un giorno Ottar confessa a un suo compagno di squadra di essere gay, decidendo di partire per un viaggio che lo aiuti in qualche modo a comprendere fino in fondo la sua reale natura, anche a scopo di accettare con chiarezza e consapevolezza la propria identità sessuale. Al suo ritorno, Ottar si vede improvvisamente estromesso dalla squadra titolare. Decide di dichiarare pubblicamente la propria condizione, accorgendosi che la propria presenza nel mondo del calcio diventa sempre più scomoda e sgradita, fino al punto di scegliere di abbandonare la squadra e andarsene a giocare in una rappresentativa composta quasi per intero da dilettanti omosessuali. La scelta di Ottar, estrema e provocatoria, è causa di disagi con suo padre, dirigente della KR, e con il figlio piccolo dell’ex calciatore del Reykjiavik, col quale Ottar cerca di ricostruire un solido rapporto, nonostante pare che il figlio sia notevolmente disturbato dalla rivelazione paterna. Ottar, comprese le insistenze di suo padre, decide di ritornare a giocare per la KR, a patto che venga organizzata una partita tra il Reykjavik e la squadra di dilettanti dove militano i suoi nuovi amici. L’incontro viene fissato, ma non tutti sanno che si giocherà nel giorno del Gay Pride.

Le atmosfere dell’Islanda quieta e malinconica, fanno da microcosmo asettico e umano di una necessità repressa dalle convenzioni e dalla morale familiare. La serenità apparente di un clima rassicurante non riesce a nascondere un disagio che è prima di tutto collettivo, a causa dell’incapacità di superare senza fatica quello che viene interpretato come un vergognoso imprevisto. Il film rappresenta la tragica commedia di Ottar attraverso i classici stereotipi dell’iconografia diffusa sul tema. L’imbarazzo familiare, non senza punte di ridicolo, l’emarginazione e la reazione sfrontata e ribelle. Il rischio corso dal regista è forse l’eventualità che il suo film sia letto come manifesto politico di una battaglia ancora limitata a ragionamenti al limite della desolazione, come se tutto dovesse essere sistemato sul piano delle parti e delle fazioni.

Eleven men out ha anche partecipato, nel 2007, ad alcuni festival cinematografici sul tema dell’omosessualità, oltre che alle selezioni di Toronto e Berlino. Il calcio ha avuto i suoi casi simili alla storia di Ottar. Il più celebre, quello di Justin Fashanu, il primo calciatore a dichiararsi pubblicamente gay. L’aneddotica non ha fatto mistero sui suoi rapporti tormentati con l’allenatore Brian Clough, dal quale Justin, pare, fu più volte insultato a causa della sue frequentazioni di locali per gay. Ancora oggi la dialettica calcistica sembra volersi estraniare dal tema dell’omosessualità, se si escludono le frequenti uscite maldestre sul tema. Il film di Douglas è un tentativo, nemmeno molto fortunato, di rappresentarlo attraverso la lente del pallone.

In uno slancio di intima e nobile prudenza, anche Mishima, col suo capolavoro letterario, ha scritto “La parate mostruosa di me ch’era prossima ad esplodere attendeva ch’io ne usassi con un ardore senza precedenti, rinfacciandomi la mia ignoranza, ansimando per lo sdegno”.

sebastiano di paolo, alias elio goka

 

Foto in immagine, locandina del film

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