Ricordo una sera – Agli alluvionati liguri dell’autunno duemilaundici

Le città dovrebbero essere costruite sopra il cielo, così da averlo sotto quel mare quieto che è l’aere prima che, da buon servo della natura, si presti senza riserve alle tempeste.

E invece, come per un’Atlantide a cielo aperto, la civilizzazione avvenne in mezzo ai due oceani che rinchiudono l’uomo e tutte le specie naturali in un doppio fondo, dove quaggiù una sconfinata ma pur microscopica massa d’acqua riflette i colori del cielo, adesso celeste come i sogni dell’uomo, ora plumbeo come i nefasti auspici degli spiriti maligni. E lassù, una sfoglia polare, messa lì per raccogliere le stelle.

E fu un misterioso destino restarvi incastrati, in questo ciclone di secche e di tempeste, senza mai riuscir a comprendere i mezzi e i criteri per scongiurare che un nostro elemento fosse ragione di sventure e calamità.

 

Eppure – poco gradevole sarebbe accanirsi sulle cause e concause, sulle responsabilità e sulle accortezze – una primordiale ragionevolezza suggerisce al progresso che la sua presenza, se vogliamo, la sua necessità, sopravvivono tanto al tempo quanto alle sue leggi, nella misura in cui, chi lo porta avanti, conservi il garbo necessario per trattare di cose naturali, senza scatenare effetti iracondi sull’imprudenza degli artifici umani.

Molto sembrerebbe allontanarsi dalla cruda realtà quanto fino a questo momento detto, potrebbe obiettare con netta e ignara avventatezza il pragmatico di turno. Solo un pensiero solitario, questa troppe volte rimuginata riflessione. Un pensiero solitario isolato dal resto del mondo, strappato a una notte di pioggia misera e innocua. Ubriaco, sbronzo del desiderio che il suo impermeabile rattrappito non si posi più sul solito minuto di silenzio dedicato al raccoglimento, o su una partita di calcio sospesa, oppure su un servizio giornalistico, sui drammi della repubblica e sulle incurie dei suoi cittadini.

Vi è anche la tragedia fra gli ingredienti delle vicende cosmiche. A ogni creatura sta di scongiurarla attraverso la salvaguardia della propria origine e della propria presenza, senza imposizione alcuna della singola natura, prima che ogni tentativo di prevaricazione ingombri lo spazio di una spietata lotta tra impari sistemi di forze. In natura non esiste elemento capace di opporsi alle leggi dell’insieme, così come non esiste insieme che possa rinunciare a un singolo elemento.

 Alle cittadinanze, di qualsiasi paese esse siano, occorre il segno della matura ragione. Sarebbe assai più opportuno sorvolare sulla squallida trascuratezza della sostanza per cedere alle lusinghe della forma, che bene nasconde la finzione di voler guardare in volto cause ed effetti.

Nessuno pensi che sia possibile perfezionare la difesa immunitaria dai deliri della natura, così come nessuno creda che sia tutto figlio del caso e della malasorte.

 

Provate a sbirciare tra le memorie e i commentari dei vostri ricordi e delle vostre esperienze. Vi riscontrerete una diabolica ripetizione dei fatti, atroci coincidenze, inquietanti ricorsi e uguali rimpianti.

Quanto ancora dovrà turbare la serenità delle discrete province nascoste tra le montagne? Quanto ancora inonderà il delirio e le debolezze delle città portuali? Quanto e quanto ancora bagnerà oltremisura le città che un tempo furono rifugio dei marinai, e che oggi ti pare pure una mezza vergogna raccontarne ancora quegli aspetti? Non è progresso, ne politico né umano, lasciar posto alla rabbia e all’imbarazzo, vestendoli di un lutto che sa ormai di un umanesimo di cattivo gusto. È un confine di tragedie e di salvezze, pure quello serrato e frapposto tra le maglie ostili dell’intelligenza. Il vero progresso, forse, è correre a previdenti soluzioni che non siano il disperato riparo a quando il cielo chiama il mare a rovesciarsi sulla terra.

 

Bruno Lauzi cantava: “Ricordo una sera a Varazze che venivo da Savona. No, non era Varazze, non era neanche Savona. Ohi! Non era neanche quella volta lì.”

 sebastiano di paolo, alias elio goka

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