Da Paperella a Garellik. Napoli e Verona nel destino, con il gusto della prima volta

Napoli e Verona, realtà agli antipodi divise da una rivalità scandita nel tempo. Ma unite, a cavallo degli aurei anni ’80, da un personaggio sui generis: “il migliore portiere al mondo… senza le mani”, parola di Gianni Agnelli. Claudio Garella, da Paperella a Garellik in una parabola meravigliosa, contraddistinta dalla gioia più intensa: quella delle prime volte, che restano ad libitum incastonate nella memoria. Storia da conservare gelosamente tra i ricordi che stringono il cuore.

Cresciuto nelle giovanili del Torino, come modello Luciano Castellini, il Giaguaro, dal quale – ironia della sorte – avrebbe raccolto il testimone in riva al Golfo nel 1985. Modello mai emulato, precisione e pulizia negli interventi, plastico tra i pali ed elegante in uscita Castellini. Tutto istinto, talento istrionico ed incontrollabile Garella, ai limiti della comprensione, come i suoi stacchi felini a tratti inconcepibili per un estremo difensore della sua stazza. Peculiarità fuori dall’ordinario, in totale controtendenza con l’ottima, e omologata, scuola italiana. Croce e delizia, doti e difetti che lo costrinsero ad una carriera in salita, aumentandone a dismisura la gavetta ma rendendo dolcissima, indescrivibile la cima raggiunta con quei sacrifici che solo chi ha visto il baratro può raccontare a dovere.

Quel baratro, appunto, vissuto nell’esperienza alla Lazio, il momento della verità dopo le stagioni nelle serie inferiori a Casale e Novara. Un’annata a scaldare la panchina, osservando Felice Pulici per poi trovare i pali, da titolare, ma nel peggior modo possibile. Di un goal sbagliato di un centravanti ci si scorda in fretta, tutt’altro per una topica di un portiere. Vita dura, quella dei numeri 1, e Garella lo comprese a dovere sotto il fuoco di fila di un ambiente, quello capitolino, spietato per antonomasia. Gli errori, clamorosi, contro Vicenza e Lens la fatidica goccia. Cocci tutti per il gigante piemontese, con quel marchio – Paperella – ad accompagnarlo, ma non per molto. Costretto a ripartire da Genova, sponda blucerchiata, tre stagioni in B fino al più classico degli incroci che ti stravolge la vita, mutandola in racconto da tramandare ai posteri.

Osvaldo Bagnoli ed Il Verona, il 1981, i primi passi di quattro stagioni trovando ribalta e rivincite. La Serie A conquistata al primo colpo solo la prima tappa di una rincorsa a perdifiato verso l’impresa. Stagioni convincenti, e quell’abbraccio con il destino: annata 1984-1985 stravolgendo ogni ordine costituito. La Serie A, il miglior campionato al mondo. Ogni miglior interprete del globo a dispensare giocate al miele nello stivale, ma nonostante Maradona, Falcao, Platini, Junior, Socrates, Zico fu il Verona di Garella, mutato in Garellik sulle colonne de L’Arena, a stupire e cogliere l’alloro. Elkjaer e Briegel, Fanna e Di Gennaro, certo. Ma a blindare la retroguardia c’era lui, intento a braccare gli avanti avversari in ogni modo, l’impensabile e oltre, senza senza porsi limiti. Uscite rovinose come marchio di fabbrica e le inconfondibili parate di piede, per poi spaziare in qualsiasi altro modo e maniera. Ma senza perdersi nel mito, quando doveva i guantoni li scaldava eccome. Senza lesinare eccessi ed errori, come il personaggio richiedeva, prendere o lasciare.

Un tricolore cucito sul petto, più di una rivincita e la Coppa Campioni ad attenderlo, ma un richiamo, e che richiamo, non cadde nel vuoto. Ferlaino e Allodi intenti a costruire, tassello dopo tassello, la scalata al primo Scudetto, con Diego Armando Maradona a dettare più di uno spunto. L’argentino primo sponsor di Garella e all’irrefrenabile voglia di accompagnare la cavalcata del più grande di tutti negli italici confini resistere fu impossibile. Seguire le orme degli idoli Zoff e Castellini un cruccio in più, da togliersi. Garella ed il Napoli, un’avventura straordinaria. Dal 1985 al 1988, toccando ogni estremo. Un’annata, la prima, per cogliere le misure, protagonisti di un ottimo terzo posto. Poi l’apoteosi, vincere in terra scaligera, ovvio, un’esperienza unica, mai più ripetuta. Ma farlo a Napoli, premiando l’attesa di un popolo lunga sessant’anni fatti di disfatte, sogni infranti e delusioni non trova giustizia neanche nel più epico dei racconti. L’ha fatto lui. Baluardo tra i pali, unico nel suo genere, di un gruppo che non poteva stavolta mancare all’appuntamento. Vinse, ammirando un’intera città in festa, nella più totale devozione. Stropicciando gli occhi al cospetto di tanto visibilio, sentendo ancora adesso il trasporto e la passione. Tra sacro e profano, in un tripudio di folklore. Dieci maggio 1987, una data incancellabile, melodia per chi c’era e può decantarne il ricordo.

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Trionfi, in campionato e Coppa Italia nello stesso anno, ma anche sconfitte dolorose. Lo scotto del rimorso che corrode. Come la Coppa dei Campioni, tanto attesa, voluta, riconquistata e sfumata sotto i colpi al veleno del Buitre, nonostante quarantacinque minuti del miglior Napoli di sempre, riducendo il Real Madrid a semplice provinciale, parole sue. Come il primo maggio del 1988, perdendo il secondo titolo consecutivo accarezzato per un’intera annata, vittime del Milan di Sacchi e degli olandesi. Il preludio all’addio sofferto: o noi o lui. Garella, Bagni, Ferrario e Giordano contro Ottavio Bianchi. Ferlaino scelse il tecnico. Giù il sipario, le meraviglie delle annate successive ammirate solo da lontano. Ma la sfida, dimostrare il proprio valore anche in una grande piazza, era ormai vinta da tempo. Rimpianti, come per l’azzurro della Nazionale mai indossato, chiuso da una concorrenza opprimente nel ruolo. Tutto sempre affrontato con fierezza, muso duro. Anche l’addio con maxi squalifica con la maglia dell’Avellino. Nel suo stile: “L’importante è parare, non importa come”. Citazione di Allodi, un paradigma che l’ha sempre accompagnato, di cui andar fieri. Parole in cui rimirare una splendida carriera, straordinaria e fuori dagli schemi. In campo come fuori dal rettangolo di gioco, nessuna alternativa.

Edoardo Brancaccio
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