La banda dei geneticamente modificati

Un gemellaggio che dura da più di trent’anni. Una Roma a portata di goal e di punti. Non facile, ma fattibile. Tre punti importanti da prendere anche per consolidare il terzo posto, in una stagione che i più avevano dato per inutile e transitoria verso chissà cosa, solo perché non avevamo più la Champions. Come se l’avessimo vinta sicuro, se fossimo rimasti. Certo, so che la Champions è importante anche per altri motivi, non fatemi più ingenua di quel che sono, ma resta il fatto che sostenere il nostro Napoli non è un lavoro, anche se a volte lo è sembrato, ma una passione, quasi malattia, e le pene spesso sono più delle soddisfazioni. E la partita contro il Genoa, forse, ha evidenziato più le prime che le seconde. Non per il risultato, non per il modo in cui l’abbiamo ottenuto, ma per il solito rischio di portare a casa un solo punto dopo tante occasioni sprecate.

Ma andiamo con ordine. Il mio viaggio verso lo stadio è stato quasi un trattato di sociologia urbana. Prendo la metro a San Giovanni a Teduccio e salgono con me dei ragazzini con sciarpe datate, dialetto tra i denti e facce da scugnizzi che, scopro, essere diretti in Curva A. E’ la prima volta che prendono la metro da San Giovanni, da poco arriva fin quaggiù con una bella, ma chiaramente vuota e abbandonata, stazione. Quando arriviamo a Campi Flegrei si meravigliano di aver impiegato solo 45 minuti, come se l’est e l’ovest di questa città avessero distanze desertiche. Con tutto un mondo in mezzo. Un mondo fatto di altri ragazzini che salgono a Piazza Amedeo, ciuffi alla moda, colori del Napoli distribuiti tra borsa, giubbino e scaldacollo, italiano perfetto con qualche scivolone dialettale, ma preso con i guanti, e biglietti di tribuna. Uno di loro, il più ardito, confessa il suo desiderio di abbonarsi, l’anno prossimo, al settore dei Distinti. Dice che l’abbonamento costa pochissimo: circa 300 euro. Sogno svanito quando un ragazzo salito a Montesanto, destinazione proprio i Distinti con fidanzata al seguito, gli svela che quello da 300 scarsi è l’abbonamento di curva. Netto il commento dell’amico: “Ah! E tuo padre non ti farà mai andare in curva!”. La replica è stata ancora più perentoria e sicura: “Vabbuo’, il resto me li dà il nonno!”. E’ successo tutto davanti ai miei occhi e alle mie orecchie, quasi divertite, mentre da sola mi avviavo al mio posticino di curva B. Arrivati a Campi Flegrei, siamo scesi dallo stesso vagone, ognuno per la sua strada ma tutti diretti verso la vittoria.

Entro, mi faccio controllare placidamente, passo il mio tornello a fatica perché il sensore ormai riconosce il codice a barre dopo il quarto tentativo, sosta al bagno con il solito uomo che confonde il simboletto con la gonna da quello senza e, poi, finalmente prendo il mio solito posto. La serata è fredda, ma fredda assai. Con un’amica commentiamo che serve una caterva di goal per riscaldarci. Ma De Guzman non è d’accordo. Amma suffrì! E allora soffriamo.

La partita sembrava cominciare bene. Un goal molto presto, che da casa ci dicono essere in fuorigioco, un Napoli con belle geometrie da centrocampo in su, un Inler con voglia di riscatto. Una voglia durata circa due minuti, credo. Dopodiché, ha risposto a tutti quelli, compresa me, che si chiedevano come mai non giocasse più. Disattento, falloso inutilmente, lento. Dopo il goal, il tipo accanto quasi si lamenta: “Quando il Napoli segna subito, sembra che la partita duri un anno! Non finisce più!”. Altri, invece, sull’ 1-0, non riescono a rilassarsi. E si capisce bene il perché. Si susseguono in fila: Higuain solo davanti al portiere che sogna sulla linea laterale gli sbandieratori di Cava, crede di vedere la segnalazione di un fuorigioco che, stavolta, non c’era ed, inspiegabilmente, si ferma; De Guzman vede Perin sdraiarsi a terra, crede stia giocando a “salta l’ostacolo” e tenta un pallonetto che raccogliamo noi in curva, lasciandoci senza neanche il fiato per le imprecazioni; Hamsik che dimentica la mazzata data in coppa e tenta un tiro a giro che ci ha fatto rimpiangere gli svariati tentativi di Insigne; un’altra volta Higuain che, strattonato da Roncaglia, chiede il sacrosanto fallo e cartellino, senza accorgersi che, però, aveva il pallone lì per metterla dentro. E questo solo nel primo tempo. Nel secondo anche peggio: ancora De Guzman a porta vuota tira in direzione dell’unico difensore che si trova sulla linea, Callejon prende una traversa dopo una deviazione. Poi, per fortuna, l’arbitro è in una giornata peggiore di tutti e dà un rigore, diciamo, generoso. Insomma, ci può stare, per citare qualcuno. Alla fine, facciamo quello che dobbiamo fare: prendere i tre punti, applaudire e sorridere fino alla prossima sofferenza.

Quando torno a casa, leggo commenti tutti simili: brutto vincere con gli aiutini dell’arbitro; ci sentiamo come la Juve e non è bello; come fanno gli altri a vincere così e a dormire la notte; il primo goal era in fuorigioco; il rigore è stato generoso; al netto delle occasioni abbiamo meritato, ma il Genoa ha da reclamare. Forse fare male così ai gemellati non ci piace per davvero. Sta di fatto che il dopo Napoli-Genoa, è sembrata la vera notte dell’onestà. E mi addormento pensando che, per fortuna, come direbbe qualcuno, guarda caso, proprio di Genova, siamo tutti  geneticamente modificati.

 

 

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