Una partita all’acqua e rose…

Sarebbe stato bello festeggiare una vittoria. Sarebbe stato bello festeggiare una buona prestazione. Sarebbe stato bello scrivere un pezzo epico di una battaglia epica fatta da giocatori epici e citare mille canzoni di Pino Daniele, senza retorica e banalità. E invece, sono davanti ad un foglio bianco e mi rendo conto di potervi offrire solo l’ultima. Dall’ “Appucundria” del post partita, di tutti, ma soprattutto di chi il giorno dopo se ne torna al Nord a subire gli sfottò di troppi amici juventini, a “Putess’essere allero” se Zapata non fosse stato amante del tuffo acrobatico, a “Quanno chiove” non fate giocare a Zapata perché è amante del tuffo acrobatico, a “’Na tazzulell’e cafè” per svegliare Hamsik, ma facciamo anche un centinaio di tazzulelle. Posso anche dire che “vuless’ nu munno onesto”, ma quando giochi contro la Juve ci può stare, come dice qualcuno. Anche se trovo esagerati i toni. Tutti errori, dal fuorigioco alla presunta carica sul portiere al retropassaggio dal gusto retrò come omaggio ai nostalgici di un calcio passato, che magari hanno potuto influire sul risultato finale, questo non potremmo mai saperlo, ma che sicuramente non hanno reso migliore la nostra prestazione, non hanno eliminato la nostra imperfezione, incompletezza di organico, basti guardare la differenza a centrocampo, la nostra ingenuità, mancanza di cazzimma, concedetemi il termine, e voglia di vincere davvero.

Eravamo tutti tesi e su di giri per Napoli-Juventus. La Supercoppa l’avevamo vinta venti giorni prima lontanissimo dal San Paolo e volevamo una conferma sotto il nostro cielo, sul nostro prato, davanti a sessantamila tifosi. Sono arrivati gli amici del Club Napoli Ivrea, il solito amico da Verona, un altro direttamente dall’Inghilterra, lui dice non apposta per la partita, ma quando arrivi il sabato prima e te ne vai dopo qualche giorno, la coincidenza puzza e non poco. Napoli-Juve non è mai stata una partita come le altre, ma ad accendere ancora di più le emozioni, stavolta, c’era anche il tributo a Pino Daniele, voce e poesia di tutte le contraddizioni e le bellezze di questa città. Arriviamo presto, qualcuno prima dell’apertura dei cancelli, qualcun altro poco dopo. Prendiamo i nostri soliti posti, con un paio di stendardi in più da tenere alti, uno in particolare che ricorda il Pinuccio partenopeo. Parliamo poco, ma cantiamo tanto. Il pre-partita non passava più, spesso abbiamo guardato, nervosi, l’orologio, con una lancetta sempre immobile, ma in compenso abbiamo goduto della chitarra e delle parole di un Pino Daniele prima maniera, tranne qualche piccolo scivolone post-moderno. Nell’aria c’era attesa. Non solo per la partita. Quella era tensione più che attesa. Sapevamo, però, che ci sarebbe stato un siparietto tra Presidente e Nello Daniele e “Napule è” all’ingresso delle squadre. Perciò, tranne qualche panino con polpette volante, utilizzato come corpo contundente contro un ignaro tifoso di una fila dietro il vero destinatario, eravamo tutti concentrati sul campo e su quello che sarebbe successo.

Ebbene. Chi ieri non era allo stadio, può recuperare qualche video. Perché per descriverlo forse ci vorrebbe proprio la poesia delle canzoni di Pinuccio e io chiaramente non ce l’ho. Le squadre entrano in campo, le note partono, le sciarpe azzurre si alzano e sessantamila persone buttano in faccia a 11 avversari e all’Italia intera che mentre loro sono in bianco e nero, noi siamo ‘e mille culuri. E il finale è emblematico. Un unico coro che, a musica già sfumata, grida “arraggiato” che “Napule è ‘na carta sporca e nisciuno se ne importa!”. Oserei dire, troppo spesso, neanche a noi.

Gli occhi ce li abbiamo ancora lucidi, un bacio ad un amico di qualche fila più su, ma che era sceso vicino a noi solo per l’ingresso delle squadre e per la lettura delle formazioni, e la partita comincia. Qualcuno spera in due passaggi e goal del Napoli. E invece segnano loro. Un gran goal di quel maledetto di Pogba. Poi la partita l’avete vista. Io non ho null’altro da segnalare se non che la frase “ognuno aspetta ‘a ciorta”, ieri, ha preso vita sugli spalti più che mai. Aspettiamo anche Hamsik, ma evidentemente il capitano non ha voglia neanche di parlare con l’arbitro, quando ce ne sarebbe stato bisogno. Poco presente e incisivo anche nei gesti che gli competono. Ho visto la Juve perdere tempo dal 42° minuto, come un Chievo qualunque. E senza averne bisogno. Ho visto un’operazione a cranio aperto in campo, pur di non far uscire un giocatore fuori. E ho visto pure dare 6 minuti di recupero sacrosanti che non abbiamo saputo sfruttare. Il tuffo di Zapata l’abbiamo subito visto tutti in diretta, e ognuno di noi ha dedicato un pensiero a lui, alla mamma, alla sorella e tutta la stirpe del giocatore in questione. Io ho detto cose che neanche ricordo. Io, se fossi Zapata, per dignità chiederei scusa e dichiarerei che “era sempre stato un mio sogno lanciarmi a cufaniello sotto la curva B del San Paolo”. Almeno sappiamo di averlo fatto felice. Per fortuna sua, scogli non ce n’erano. “Dilettante!”, avrà pensato il Pipita.

Insomma, la partita l’abbiamo persa 3-1. In casa. E brucia. Non una grande prestazione per entrambi, ma la differenza sta negli uomini decisivi, nelle belle giocate individuali e nella consapevolezza che il centrocampo non è soltanto un cerchio da dove si batte il calcio d’inizio.

Me ne torno a casa dopo aver elaborato con successo il lutto grazie ad una birretta tra sorrisi di veri amici. E mi addormento con ancora tutte le emozioni di una Napoli unita nel suo dialetto e nelle sue note. Ognuno coi propri ricordi, i propri aneddoti, i propri stati d’animo e i propri occhi lucidi. E penso che, a volte, tra mille colori che ti riempiono l’anima, puoi anche sopportare un azzurro meno splendente.

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