Da Partenope a Penelope. Quella crescita finita in ghiaccio

“Dobbiamo crescere”. Una pacca sulla spalla, uno stimolo. Ma anche un mezzo alibi. Ogni qualvolta il Napoli si incarta in un mezzo passo falso, ecco spuntare fuori dalla bocca dei protagonisti la frase applicabile a tutte le stagioni. Sarà vero. Bisogna maturare. Ma da quanto dura quest’estenuante evoluzione? Per crescere, occorre che tutti siano affamati e ambiziosi. Non lo siamo. Occorre trarre da ogni errore una lezione, tra le più banali regole sociologiche. Calciatori, allenatore, società e piazza sembrano inflessibili ad ogni tipo di bacchettata. E così sono qui a chiedermi se questo non sia invece il piano più alto, un non plus ultra. Nessuno ha la capacità di scoperchiare il tetto e puntare l’azzurro del cielo. Destinati ad alzare gli occhi ed ammirare?

Il Napoli di Milano è ancora una volta stupratore di sè stesso. Non consenziente, ma inspiegabilmente recidivo. Non metterà mai la testa a posto se non sa dove trovarla. Prima timido e rinculato, poi un po’ più rilassato ma mai intraprendente, infine sfortunato e incredibilmente masochista: che succede a questo giocattolo? Prima della sosta pareva ormai consapevole dei propri limiti e pronto a non rincorrere più false speranze. Domenica sera, per l’ennesima volta, è tornato spaurito e tremolante come un bimbo nel buio della sua cameretta. Come se nessuno gli tendesse la mano per aiutarlo a vincere le incertezze. E quei timidi bagliori resteranno tali, chissà quanto a lungo. Una Partenope con i tratti dell’epica Penelope, che fa e disfa la sua tela in attesa di un Teseo  che non arriverà mai.

Si sprecano i paragoni con la stagione passata, con uno spettacolo su cui improvvisamente è calato il sipario. Ma a ragion veduta, la squadra di Benitez non ricordo abbia fatto mai stropicciare gli occhi se non a sprazzi. Borussia, Arsenal, le due gare dell’Olimpico contro la Roma, la Juventus quando ormai non contava più nulla. E poi l’Inter, proprio l’Inter, che al San Paolo lo scorso dicembre riuscì in 90′ a farci conoscere le due facce della medaglia azzurra: roboante dalla trequarti in su, disastrosa appena messa sotto pressione. E da gennaio in poi questo alter ego si è palesato con forza sempre maggiore, pendendo sempre più dal lato tragicomico. Perchè i meccanismi offensivi e le caratteristiche dei nostri “tenori” sono entrate nel monitoraggio di ogni allenatore e pian piano si sono trovate contromisure. La discutibile fase di copertura e le amnesie dei singoli si sono invece incancrenite senza che Benitez trovasse un rimedio. Il mercato, linfa vitale della sbandierata “crescita”, non è stato certo di supporto. Basta aggiungere il calo dei migliori attori dello scorso anno e l‘involuzione è servita.

Manca carattere. Manca un’anima. Manca un leader. O meglio, è sempre mancato. Qualcuno fa orecchie da mercante o semplicemente crede che una grande squadra possa sopperire alla mancanza di uomini di personalità. Uomini che sanno strigliarti con uno sguardo, caricarti con le parole giuste, trascinarti dietro un loro gesto e non farti mai perdere la concentrazione nemmeno quando sei sotto la doccia. Reina era uno di questi. E abbiamo perso anche lui. Crescere, allora. Ma finora a crescere sono solo i rimpianti. Di quello che poteva essere e non è stato. Ancora.

Ivan De Vita

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