Napoli-Chievo: fine pena mai

E’ una bella domenica di settembre, un sole caldissimo riscalda ogni cosa incroci sulla sua strada, tutto, intorno, sembra suggerire la nullafacenza, la sera prima sono andata a letto molto tardi, al punto da poter scrivere anche “la mattina prima”. Tutto lasciava intendere che non ci fosse scelta migliore che una delle due seguenti soluzioni: restarsene beatamente a letto a recuperare sonno perduto da tempi atavici oppure indossare costume e poco altro e continuare a dormire in spiaggia. E, infatti, io ho scelto di andare allo stadio.

“Un abbonamento fatto solo pochi giorni prima va sì onorato”, ho pensato. “Ma il Chievo è sempre stata la nostra bestia nera. E poi a pranzo faccio il risotto alla pescatora”, controbatte mia madre. Ecco. In una domenica di settembre, calda e soleggiata, in cui avrei potuto godermi il beato ozio e il risotto di mammà, ho optato per il masochismo imperante e mi sono avviata allo stadio. Curva B, chiaramente. Con il solito gruppo ad aspettarmi, questa volta con un ritorno storico: ricordate il personaggio mitologico, metà uomo e metà borghetti, che prima di una partita (Napoli-Roma: 4-1, tiemp’ bell’e na vota!) cadde incrinandosi le costole, ma che stoicamente rimase con noi per tutti i 90 minuti? Ecco. Lui. Lo saluto con tanta stima e affetto e prendo posto al solito deck 4.

È la prima di campionato in casa. Pochissimi abbonati e prezzi accessibili. Risultato: la curva si riempie. La gioia di vedere tanti bambini intorno è condivisa con alcune persone del gruppo. L’abbiamo notato e la cosa ci piace. Ma dopo la partita di oggi, dubito ci tornino anche. Purtroppo. E, oltre ai bambini, che sono e restano anime pie del signore, si sa, ci sono i genitori. E con i genitori, gli accompagnatori dei bambini. E con loro, le amiche degli accompagnatori dei genitori. Insomma, oggi allo stadio c’era di tutto.

E allora questo pezzo lo vorrei dedicare alla simpaticissima ragazza che era in curva dietro di me. Un concentrato di ottimismo e incitamento. La sua frase più attinente alla funzione di sostegno è stata, su ogni benedetta palla presa dal Chievo, e, giuro, parlo di ogni palla, dopo lo 0-1, è stata: “Eccolo. Eccolo. Mo’ fanno il secondo. Eccolo!”. Ad un certo punto non ce l’ho fatta più. L’ho invitata, in maniera molto cordiale, a fare silenzio. In verità, non sono stata l’unica. Ma la tipa s’è beccata almeno tre guardate fulminanti contemporaneamente. E, allora, ha finito con la squadra, e ha cominciato a prendersela indistintamente con tutti quelli che non c’entravano nulla: l’arbitro, il guardialinee, il quarto uomo, i raccattapalle e la loro lentezza. Finanche con il medico del Chievo per le sue diagnosi infinite, mentre il giocatore, dopo la disperazione del moribondo a terra, si rialzava, faceva un doppio salto carpiato e ritornava a giocare.

La stessa persona che, all’indicazione del dischetto da parte dell’arbitro, quando con la concessione del rigore sembrava tutto più facile, la prima frase che ha detto non è stata: “Olè! Quanto sono felice!”, ma “Tanto il Pipita non ne sbaglia mai uno! E quando glielo pari un rigore a Higuain!!”. Oggi. Oggi, ragazza che eri seduta dietro di me. Esattamente oggi gliel’hanno parato.

Proprio oggi. Lo stesso giorno in cui l’amico che era davanti, ricorderà benissimo il nome del portiere del Chievo, nome che, fino ad oggi, era convinto finisse con “- vic” perchè straniero.

Proprio oggi che Zuniga ha chiesto un giorno libero. A parte gli ultimi dieci minuti, in cui ci ha fatto un riassunto di tutte le finte che non era riuscito a fare l’anno scorso. Grazie, Zuzù, grazie. Ho sentito qualcuno confidare all’altro che, una volta rientrato il colombiano, sarebbe stato costretto a prendere di nuovo gli ansiolitici. Come dargli torto?!

Sicuramente oggi, che le curve hanno fortemente contestato il Presidente, avuto un pensiero dolce per Gargano, invitandolo a togliersi la maglia. Ma non per entrare nel campo da gioco. Qualcuno ha cercato timidamente di fischiare Insigne, ma è stato sovrastato da applausi scroscianti. Siamo buoni, si sa. E lui non ha giocato male. Anche se, qualcuno ha suggerito, fosse in lui, il triciclo con le zeppole e i panzarotti non lo venderebbe ancora.

Senza dubbio oggi, in cui la bestia nera si riconferma tale, con Spiderman tra i pali, una maglia che si confonde con quella dell’arbitro, la riconferma di avere due fasce fantasma e un Higuain troppo solo. Tanto solo che sono molto in pena per lui. . Sono molto in pena anche per tutti noi che eravamo lì con tutto il nostro entusiasmo. Sono molto in pena anche per chi non è venuto. S’è perso comunque l’occasione di ascoltare dal vivo una curva intera esclamare, sull’ennesima parata di Bardi, “per dindirindina”. E sono molto in pena anche per chi è venuto per la prima volta allo stadio. Non doveva cominciare così. Sono molto in pena per molte cose, questo s’è capito. Tranne, però, che la ragazza seduta dietro di me. Lei se l’è meritata tutta la sconfitta.

Tornando all’auto ascolto un tizio fermo vicino alla sua auto che racconta all’amico i suoi poteri veggenti, o la sua pazzia:Il Napoli è forte e vince. Vince sicuro! Prima della partita me lo dicevano queste vocine che ho nel cervello…”

La risposta pronta e perentoria di uno che passava di lì per caso:“E t’hann’ itt ‘na strunzat!”

Insomma, siamo poesia pura in tutte le occasioni. Anche quando, forse, siamo appena stati messi al corrente della nostra sentenza di quest’anno: fine pena mai.

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