L’editoriale di Deborah Divertito: “Quanto avevi ragione, Peppi’!

Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. All’esistenza di orrendi palazzi sorti all’improvviso, con tutto il loro squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con pronta facilità, si mettono le tendine alle finestre, le piante sul davanzale, e presto ci si dimentica di come erano quei luoghi prima, ed ogni cosa, per il solo fatto che è così, pare dover essere così da sempre e per sempre. È per questo che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore”. Queste sono le parole di Peppino Impastato, ammazzato dalla mafia il 9 maggio del ’78. Ad oggi, sono trascorsi 36 anni e le cose sono solo peggiorate, Peppi’!

Eri di Cinisi, Sicilia. Bella la Sicilia. Ma io posso solo parlarti della mia Napoli e di quanto le tue parole mi accompagnano ogni volta che le rivolgo uno sguardo malinconico. Quanto è bella Napoli?! Quanto sarebbe ancora più bella se solo ognuno di noi ne avesse la consapevolezza e non si rassegnasse al fango e alle storpiature che ci impongono e che noi ormai accettiamo senza batter ciglio?!

Peppi’, tu hai detto che la bellezza sarebbe un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. Beh, io ti dico che a noi napoletani ci appartengono tutte e tre. E ci appartengono tutti i giorni: quando pensiamo che “così fanno tutti”, che “ormai non c’è più niente da fare”, che “le mele marce fanno più rumore e contagiano anche quelle buone”, che “meglio che pago il parcheggiatore perché altrimenti mi rompe l’auto”, che “meglio che pago il pizzo perché mi incendiano il negozio”, che “meglio che i miei figli crescano via da qui”, che “inutile che denuncio tanto le forze dell’ordine non sanno neanche loro cosa fare”. Tutte le volte che difendiamo la nostra bellezza senza prima rimboccarci le maniche, senza prima affondare le mani nella terra per rovistarla e per farne uscire linfa nuova e senza prima ammettere che è una terra pregna di camorra a tutti i livelli: politico-istituzionale, economico, sociale e culturale.

Si mettono le tendine alle finestre, le piante sul davanzale e ci si dimentica di come erano le cose prima. Quanto è vero, Peppi’! La polvere sotto il tappeto. Quando almeno si ha un tappeto sotto cui nascondere le brutture che ci circondando e ci riempiono di merda. Tu parlavi di speculazioni, intendevi quelle edilizie, io mi permetto di allargare il discorso anche a quelle politiche, a quelle economiche, a quelle mediatiche. Persino quando si tratta di uno sport, di una manifestazione sportiva, di un momento di aggregazione come una finale. Qui si lamentano che si è fischiato l’inno nazionale, Peppi’! La verità è che dovremmo lamentarci noi in altro modo, non solo fischiando, ma non lo facciamo. E temo non lo faremo mai. È come se uno costruisse un palazzone davanti al mare non facendo vedere la sua bellezza a tutto il resto della città e nessuno dicesse niente. Poi, arrivano un paio di loro, che sulla parete bianca appena ritinteggiata per nascondere le toppe dello stucco, ci scrive: “Questo palazzo fa schifo” e tutti si lamentano di una scritta e non del fatto che un palazzo abbia rubato loro la bellezza. Il problema, Peppi’, non è l’espressione di un’opinione di un paio di loro, ma i problema, Peppi’, è il palazzo.

Una cosa tu gridavi dalla tua radio. Una cosa che tengo sempre bene in mente. “La mafia è una montagna di merda”. E non solo quella, Peppì. Non solo quella.

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