“Vesuvio lavali col fuoco” come nuovo inno nazionale degli ultrà

Andy-Warhol-Napoli-VesuviusIl Napoli è causa di una “mattanza” di squalifiche e sospensive di curve. Per qualcuno si tratta soltanto di calcio, per altri invece è una questione disciplinare. Ma non è il Napoli a essere la ragione, piuttosto è qualcos’altro che viene preso a calci senza tanto riguardo. Roma, Milan, Inter, Juventus, Torino, Brescia e Fiorentina sono le tifoserie “incriminate”, per aver cantato, a Firenze si è ripetuto, il solito gregoriano sul Vesuvio e le eruzioni.

Chiariamo subito che non si tratta di uno sparuto gruppetto formato da quattro ignoranti, la scusa è vecchia. I cori si sentono eccome, dallo stadio, dalla televisione e da quanto basta per rendersi conto che a intonare i cori non sono in pochi. Se si provasse a fare una sommatoria di tutti quelli che ogni domenica, sabato, turno infrasettimanale, cantano Vesuvio, colera e tutto il resto, si leggerebbe la “simpatia” di una folla sterminata. Del resto cantano pure in altri stadi, anche dove il Napoli non gioca, come fosse una specie di pulsione, un irrefrenabile impulso da sfogare per non lasciare che la nevrosi corroda l’anima e il pensiero.

Allora il Napoli e Napoli diventano causa di questa strana forma di provvedimento disciplinare, contro le curve, gli stadi vuoti, le tifoserie, a dispetto di un codice ultrà che se infranto pare offenda pure i “tifosi-vittima”, o meglio, gli ultrà che lo definiscono un normale sfottò.

Non deve meravigliare, in un mondo dove sugli spalti olandesi alcune tifoserie imitano il rumore delle emissioni di gas dei campi di concentramento nazisti per addurre sionismo all’avversario a mo’ di offesa. E pensare che l’Olanda ne ha pianti di lutti a causa del nazismo. Ma il tifo coniuga un linguaggio brutale, che attinge alla grammatica del massacro. Però è curioso di come tutto questo in Italia si verifichi nella stessa direzione. Tutto va verso Napoli, in questa grande adesione nazionale al coro violento.

Senza volerlo le tifoserie hanno inaugurato un manifesto orale che viene puntualmente recitato e cantato sugli spalti, come una sorta di preghiera, di inno nazionale degli ultrà. E, allo stesso tempo, non deve meravigliare, perché la pratica verbale antinapoletana trova riscontro in verifiche che si possono osservare negli atteggiamenti mediatici, pure quelli che sembrerebbero porsi a difesa dell’onore partenopeo.

La voce denigrante sulla Napoli sperabile in sciagura non nasce dalle gradinate di uno stadio, e nessuno s’illuda che nasca dalla sottrazione borbonica (si scadrebbe nella più fiera demagogia), ma si forma nel tempo degli stereotipi, degli artifici della comunicazione e della politica, senza considerare pure l’autoproduzione razzista che il meridione si butta addosso da una vita.

Adesso fluttuano sospesi a mezz’aria gli spalti immaginari guardati a vista dalle “condizionali” del giudice sportivo. Canteranno ancora? Non ha importanza. Più importanza ha il sentimento collettivo, che, bando a buonismi e ipocrisie di occasione, scrollandosi di dosso doveri di esclusione e di equilibri squilibrati, non è così di sparuta quantità. Non è una selezione di chansonnier maleducati, ma un coro di voci, bene allargato, un allegretto andante domenicale che s’illude di offendere, ma che vale lo strascinato e svogliato provvedimento disciplinare che resta così, sospeso.

Adorno ha scritto che “Dire noi ed intendere io è una delle offese più raffinate”. Si canti pure, col noi nel cuore e l’io da condannare, ma sempre da sospeso.

 

Sebastiano Di Paolo, alias Elio Goka

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