L’economia del calcio, un altro miserere italiano

FILEDENAROEUROL’economia del calcio italiano è in piena crisi. Programma soltanto contraddizioni. All’introito dei decenni addietro, oggi risponde con una lunga serie di difficoltà. Anche l’aspetto tecnico è la proiezione perfetta dell’andamento finanziario. Fino a qualche anno fa, il Campionato italiano di serie A era considerato, in assoluto, il migliore al mondo, oltre che per tradizione, anche per presenza dei più forti calciatori. Gli italiani e gli stranieri presenti nella massima serie erano quasi annoverati tra i migliori calciatori del mondo, e quasi tutti gli atleti degli altri campionati prima o poi finivano per assicurarsi un contratto con un’importante club italiano.

L’America del calcio era l’Italia, realtà testimoniata anche dai numerosi successi internazionali delle squadre italiane, soprattutto grazie alla possibilità per queste di schierare le migliori batterie tecniche a disposizione. La serie A vantava, a volte in una sola rosa di una singola squadra, formazioni quasi per intero composte da fuoriclasse di indubbio valore riconosciuti da tutto l’ambiente internazionale. Non solo, anche gli stessi calciatori italiani difficilmente erano disposti a traslocare in campionati esteri e il trasferimento di un italiano diventava un fatto eccezionale. Come era eccezionale che un allenatore importante finisse alla guida di un team straniero. Non è un caso che oggi Capello, Ancelotti e Spalletti, sulla carta i più esperti, allenino squadre non italiane. Qualche anno fa non sarebbe stato possibile. Opportunità d’ingaggi e disponibilità tecniche non lo avrebbero permesso.

Alcune vicende finanziarie (pure collegate all’economia dei “derivati”) che hanno legato le sorti di alcune società alle vicissitudini degli scandali finanziari (in particolare Lazio e Parma), gli eccessi di investimento, l’avvento del calcio televisivo e molte altre cause di natura politica ed economica, hanno ridotto a un preoccupante “essenziale” la scorta economica delle società. Anche per i grandi club, nonostante il supporto delle televisioni, non è possibile investire come le società estere, più solerti nel tempo a legarsi a sponsorizzazioni e partner regine del mercato mondiale.

Stadi di proprietà, serrate politiche di merchandising, aperture ai mercati esteri, alleanze con le aree più forti dell’economia, hanno consentito a certe società di poter accedere a possibilità di investimenti notevoli, che, per certi versi e fino a prova contraria, resistono pure alle minacce dell’ipotetico fair play finanziario, che, va detto, dovrà comunque fare i conti col peso politico di società che da un momento all’altro non potranno essere estromesse dalle principali competizioni internazionali. Paradossalmente, ne risentirebbe l’introito stesso.

Alcuni campionati stranieri, su tutti quello tedesco, hanno investito sulla qualità del gioco calcio, anche rispetto alle infrastrutture che, non a caso, permettono al pubblico un coinvolgimento diretto, in termini di sicurezza e di partecipazione. Oltre che per i prezzi e la dovuta cautela dei consumatori, in Italia il calo di abbonamenti è dovuto anche alla mancanza di qualità dei servizi introno all’evento calcistico. Nel tempo, inoltre, il monopolio televisivo ha depotenziato il margine del contributo degli spettatori allo stadio, ovviamente diminuiti. Nei bilanci sono i soldi delle televisioni e degli sponsor a contare e sempre meno quelli degli incassi. Soltanto poche società, il Napoli è tra queste, possono ancora considerare l’incasso un elemento significativo nei bilanci societari.

C’è, poi, da considerare un aspetto non trascurabile dell’economia del calcio nazionale. La federazione e gli organismi ad essa connessi vantano una distribuzione piuttosto discutibile delle risorse finanziarie a loro disposizione. Infatti, più di 100 milioni annui finiscono fuori dalla serie A sottoforma di mutualità, senza considerare una dispersione di denaro in direzioni che non contribuiscono al miglioramento qualitativo del calcio e della sua economia. Mancano, al riguardo, leggi adeguate, e troppo spesso vengono adottati provvedimenti di carattere emergenziale, o comunque di una certa provvisorietà.

Il sistema calcio, e questo è un altro aspetto drammatico, sta andando incontro a un indebitamento preoccupante. Pare siano circa 1600 i milioni di euro di debito complessivo delle squadre professionistiche. Tranne Napoli e Lazio, le uniche “virtuose”, il resto continuano a navigare i un mare di debiti. L’indebitamento potrebbe risultare presto pericoloso, perché le nuove economie e i nuovi modelli fiscali, di natura più ampiamente regionale (vedere Europa) non sembrano più tollerare metabolismi finanziari basati sul fardello debito, che per molti anni ha caratterizzato anche le economie più forti.

È noto che anche le mafie investono e attingono risorse nello sport, in particolar modo nel calcio, e questo, inutile sottolinearlo, non giova al mantenimento sano e solido anche della sua economia.

È ovvio che non è ancora possibile, almeno parzialmente, stabilire un punto di rottura definitiva, ma la fuga di giovani talenti italiani all’estero, la perdita dei migliori calciatori stranieri, poco a poco dirottati verso i grandi club di altri campionati europei, e la mancanza di un piano realizzabile di recupero, non fanno pensare a una ripresa imminente del fenomeno calcio inteso come risorsa economica.

Inutile sottolineare quanti punti oscuri conservi la crisi del calcio italiano, e come essa sia inevitabilmente legata alla crisi generale. Ma è soltanto un fatto economico? E se di volontà si tratta, è soltanto nazionale? Il grande denaro non gode mai di piena indipendenza. Sarebbe l’ennesima tristezza se il pallone, oltre ad aver perduto la sua poesia, perdesse pure l’occasione di restare almeno una risorsa attendibile, e non solo per intrattenere e tenere buone le masse.

Sebastiano Di Paolo, alias Elio Goka

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