L’editoriale di Elio Goka: “Cosa resta di Nuceria Pompei del 59 d.c.”

editoriale_elio_goka-300x150Cosa resta di Nuceria Pompei del 59 d.c? Fu in quell’anno che nocerini e pompeiani s’affrontarono in un grande tafferuglio dentro e fuori l’anfiteatro di Pompei, pare, a causa di alcuni terreni agricoli perduti da Pompei a vantaggio della vicina Nuceria. Affari colonici di politica territoriale, che ricordano sempre qualcosa. Abbastanza per scatenare la rissa in stile ultrà, dove, secondo quanto testimoniato da Tacito, il crescendo violento iniziato con insulti e finito con le armi, uccise molti spettatori e ne mutilò molti altri, al punto da consegnare alla storia il primo, o quasi, modello di zuffa da stadio con tanto di vittime, in prevalenza nocerini, e provvedimenti disciplinari.

Già, perché il fattaccio fu portato da Nerone in senato, dove fu deliberata la chiusura decennale dell’anfiteatro, “squalifica” ridotta, così sembra, a due anni, per esplicita richiesta di Poppea, che da quelle parti possedeva una villa poi rinvenuta nei pressi di Oplonti.

Paradosso smisuratamente più brutale volle che le cose a Pompei fossero andate poi peggio esattamente vent’anni dopo, quando, nel celebre 79, il Vesuvio sotterrò la città, cambiando faccia alla frazione della Campania felix preferita da Roma, cittadina, quella pompeiana, ignara che secoli dopo si sarebbe riconsegnata alla storia come memento di civiltà.

Qualcuno forse dovette gridarlo “Vesuvio pensaci tu”, durante quel giorno di sangue allo spettacolo dei gladiatori, perché la maledizione fu presto servita e nella maniera più spettacolare e distruttiva possibile.

Adesso, a distanza di così tanto tempo da quei giorni, dall’eruzione, dal rinvenimento della città antica, Pompei assiste all’abbandono e all’incuria degli scavi, che salta spesso sulla ribalta della cronaca disonorevole, anche in virtù delle frequenti sollecitazioni degli organismi internazionali, i quali, addirittura, minaccerebbero di degradare il simbolo del sito archeologico, non più degno di essere annoverato tra i patrimoni dell’umanità.

Sono lontani quei giorni in cui l’archeologia dimostrò che ritrovare una città sepolta non significa riesumare un cadavere, ma ridare nuova vita a un luogo che è passato per la distruzione solo per poi restituirsi all’immortalità. Altrove, laddove la storia è stata meno brutale, e, sia ben chiaro, la storia, non la natura, tutto sarebbe diverso.

Ormai gli scavi archeologici di Pompei sono una svista, un miraggio, perduti e frazionati dentro un crepuscolo offuscato, dove un orizzonte sbiadito si è nascosto dietro il Vesuvio, e dove dal foro non si sentono più le voci e i sussurri frutto di quella immaginazione che soltanto la certezza dell’origine può garantire a un uomo del suo tempo. Prima di ogni altra cosa è a rischio questa, l’immaginazione. Lo ha scritto pure Italo Calvino, nelle “Città invisibili”, che “Ogni città riceve la sua forma dal deserto a cui si oppone”.

La zuffa tra pompeiani e nocerini è testimoniata pure da un celebre affresco della Casa della rissa dell’anfiteatro, negli scavi di Pompei, dove, anche nella Casa dei Dioscuri un particolare graffito fa riferimento all’aneddoto. Le parole in latino dicono, “Campani victoria una cum nucerini peristis”, “O campani, in quella vittoria siete morti insieme ai nocerini”.

Magari fosse servita a qualcosa, quella zuffa finita in tragedia. Come ha scritto il novellista Ivo Andric, nei suoi Racconti di Sarajevo, “Io so che l’odio come l’ira hanno la loro funzione nello sviluppo della società, perché l’odio dà la forza e l’ira sprona al mutamento”. A Pompei, come in altri luoghi dove la dignità s’è perduta, la distruzione si è presentata col sorriso, e silenziosa opera in pace.

Quando entro negli scavi e mi guardo intorno, trovo tristemente sorprendente come l’incalcolabile possa ridursi al limite della scomparsa, laddove nemmeno la morte e la distruzione della natura, passando la mano, sono riuscite a cancellare tutto. Qualcosa ha resistito per sottoporsi a violazioni peggiori. E, ogni volta, me ne accorgo quando vedo tante persone farsi fotografare sorridenti accanto ai calchi degli scavi. Forse la rissa è ancora in corso, e dura altrove.

Sebastiano Di Paolo, alias Elio Goka

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