Gioia Masia: “l’icona del calcio femminile” del Napoli Carpisa Yamamay

gioia masiaNel calcio esistono le meteore, capaci di brillare per una sola stagione, per poi eclissarsi nel lugubre baratro del dimenticatoio, ma anche le icone: quelle che, durante ogni Campionato, per molteplici Campionati, a dispetto degli anni che passano, sviscerano in campo tutto il loro morigerato, cristallino, incontenibile talento, troppo sfrontato per fustigare quella fame di calcio, attorcigliata tra viscere ed anima di chi, una vita lontana dal rettangolo verde, fatica a concepirla “una vita“.

Gioia Masia, 36enne difensore del Napoli Carpisa Yamamay, in virtù dei 22 anni trascorsi a prendere a calci un pallone, incarna una delle più sublimi ed eccelse icone del calcio femminile italiano.

Gioia palesa l’esperienza di un veterano che di partite e di competizioni importanti ne ha collezionate non poche, l’animo fiero di chi ha il cuore bardato dal lustro e dalle onorificenze che scaturiscono dagli scudetti e dalle coppe, conquistate sul campo, ma, al contempo, la grinta e l’entusiasmo di una debuttante, con i polmoni colmi d’ossigeno, da spendere ancora e sempre in campo e l’indomita ed ostinata combattività che infervora il temperamento del più prode dei combattenti.

La spensierata ed entusiasta indole di un’adolescente imprigionata nel corpo di una donna umile, determinata e ed altresì cordiale e fervida.

Parlare con Gioia è come consultare un “manuale umano del calcio“, ma quello che conferisce infinita voluttà al dialogo è quell’umile inconsapevolezza che non le consente di ergersi a saccente maestra, ma piuttosto, la conduce verso la figura, a lei più congeniale, della gioviale ed ospitale interlocutrice.

Come giudichi il Campionato disputato dal Napoli, terminato sabato con lo schiacciante 8-0 contro il Como?

“Abbiamo disputato un buon Campionato, rispetto alle prime partite siamo migliorate, abbiamo consolidato un feeling ottimale in campo durante il girone di ritorno, soprattutto contro le big del campionato come la Torres e il Brescia, abbiamo dimostrato di essere una buona squadra. A conti fatti, siamo una delle rose più ampie del Campionato, non la migliore, ma di sicuro il turn over che il mister ha potuto praticare è un fattore che ci ha consentito di maturare il quinto posto conquistato durante il campionato d’esordio in A e questo è un grande merito che va attribuito alla società. Il problema del campionato femminile è che a contendersi lo scudetto sono le prime due squadre, le ultime lottano per la retrocessione e quelle che militano al centro della classifica, una volta salve, sono già in vacanza. Prima, la Coppa Uefa, era un buon palliativo che conferiva maggiore agonismo per ambire alla partecipazione di una competizione importante. Sabato scorso, si è visto, il Como è sceso in campo con l’atteggiamento di chi non ha più nulla da chiedere al Campionato, mentre noi eravamo più agguerrite e motivate, sia dal desiderio di riscattarci dalla partita dell’andata, sia per preservare i due record di imbattibilità ed, infatti, le ragazze non hanno mai mollato ed hanno corso fino al 90′. “

Sabato, invece, sarà tutt’altra partita:

“L’unico errore che non dobbiamo commettere è sottovalutare la Roma, perché milita in A2, verranno al Collana a disputare la partita della vita, non hanno nulla da perdere. Proprio come fu per il Napoli contro la Torres un anno fa. Se vincono, centreranno un’impresa, quindi noi, dobbiamo essere consapevoli della nostra forza e dei nostri mezzi e scendere in campo con la percezione che ogni partita è una storia a se e che se approcciamo alla gara con superiorità, siamo sconfitte in partenza. L’importanza della mentalità con la quale si affronta la gara l’abbiamo rilevata nelle partite disputate nell’arco del Campionato al Collana contro le grandi squadre che pensavano di venire qui a fare una passeggiata, ma Mister Marino ci ha insegnato che la mentalità si costruisce durante la settimana, non il sabato quando entri in campo.”

Hai 36 anni, giochi a calcio a livello professionistico da 22 anni: cosa ti spinge a non attaccare le scarpette al chiodo?

“Ogni anno, quando inizio la preparazione pre-campionato, quindi quando affronto il momento più faticoso della stagione, mi dico sempre: “Questo è l’ultimo anno, poi smetto!” Poiché vorrei realizzare altri sogni, quali mettere su famiglia e soddisfare il desiderio di maternità, del resto, sono fidanzata da 7 anni e vorrei sposarmi con il mio compagno ed avere un figlio da lui. Tuttavia, quando arriva la primavera, non ho il coraggio di smettere, quindi mi dico che appenderò le scarpette al chiodo quando non avrò più voglia di giocare, credo che, quando arriva quel momento, un calciatore lo avverte, è una cosa che devi sentire.”

Come hai visto cambiare il calcio femminile in questi anni e cosa manca a questo sport per catturare l’attenzione del pubblico e dei media?

“In verità, ho sempre sperato che cambiasse qualcosa, ma non ho mai realmente rilevato una crescita di questo sport. Manca la visibilità, tuttavia, le società come il Napoli e la Torres si muovono tanto, in tal senso, ma sono i vertici ad attivarsi, ad invogliare i media e ad avvicinarli al calcio femminile, difficilmente le cose cambieranno. Spesso, le pagine dei quotidiani di caratura nazionale, sono riempite da notizie effimere, alle quali si preferisce dare comunque spazio, piuttosto che dedicare attenzione al calcio femminile. Quando ero nel giro della Nazionale, ricordo che sono state svolte diverse riunioni ed incontri, nell’ambito delle quali, si sprecavano i buoni propositi sul da farsi per incrementare l’attenzione intorno a questo sport, ma poi è scemato tutto e quelle sono rimaste solo belle parole, mai convertite in fatti.”

Hai vinto praticamente tutto quello che c’era da vincere: 3 scudetti, 6 Coppe Italia, 2 Supercoppe Italiane e 2 promozioni, hai disputato tutte le competizioni più prestigiose e hai condiviso il campo con calciatrici del calibro di Patrizia Panico e Carolina Morace:

“A livello nazionale si, ho vinto tutto, purtroppo nell’elenco delle competizioni vinte, manca solo la Champions, ma per le squadre italiane è destinata a rimanere un sogno, proprio perché, nel confronto con le altre squadre europee, ti relazioni con realtà calcistiche differenti e superiori che palesano tutti i limiti del nostro calcio. Disputare la Champions, comunque, è un’emozione magica. Lo abbiamo visto anche in occasione della partita che quest’anno il Napoli ha disputato con il Paris Saint Germain, in campo si respirava un’aria completamente diversa.
Ho iniziato a giocare a calcio a 9 anni, sono cresciuta in un ambiente determinante e serio che ha saputo imprimermi la mentalità vincente, nonché valori importanti, in Nazionale e nei vari club nei quali ho militato ho condiviso il campo con le migliori giocatrici italiane ed inevitabilmente mi hanno trasmesso ed insegnato tanto a livello umano e sportivo, cosa che ovviamente accade quando interagisci con persone carismatiche.”

Hai giocato con Torres, Lazio, Bojano, Roma, Tavagnacco e Napoli. Qual è il ricordo più significativo legato a ciascuna delle maglie che hai indossato?

“La Torres la definisco la “mia squadra“: è quella che rappresenta la mia città, pertanto, per me è la maglia speciale per eccellenza, quella con la quale ho esordito in Serie A ed ho vinto tutto, scudetti e coppe, tutto quello che ho vissuto in quel club rappresenta un bel ricordo.
La Lazio è stata una scelta voluta, adoro Roma e avevo voglia di fare un’esperienza fuori, per confrontarmi e giocare insieme ad altre compagne, per cui ha rappresentato una crescita a livello umano.
Bojano è stata una parentesi, volevo disputare una stagione meno carica di responsabilità, tra l’altro, fui messa fuori rosa, perché sorsero dei disguidi legati al fatto che non venivo pagata, quindi da quell’esperienza ho senza dubbio imparato a non essere istintiva ed impulsiva.
La Roma è davvero “magica”, nella capitale ho vissuto 5 anni indimenticabili, ho vinto un campionato e sono stata il capitano di quella squadra e per me è stato davvero un onore. A Roma, come a Napoli, il calcio è vissuto e concepito in maniera diversa rispetto al Nord.
Scelsi il Tavagnacco perché volevo rimettermi in gioco, alla mia età, per guadagnarti la maglia da titolare devi faticare il doppio rispetto alle compagne più giovani. La sfida l’ho vinta, poiché ero sempre titolare, quindi, ho dimostrato di essere all’altezza di calciatrici che avevano 10 anni in meno rispetto a me, allora ho capito che, se disponi di una tenace forza di volontà, riesci a perseguire i risultati e questo è il riconoscimento più grande per una calciatrice.
E poi sono arrivata a Napoli…Mi sono affezionata tanto alla maglia, alla società, al gruppo. All’inizio ero timorosa per il fatto che quando arrivi da un’altra squadra, non sai mai cosa ti aspetta. Il gruppo che aveva vinto il Campionato in A2 conquistando la promozione in massima serie, era stato smantellato per rinforzare la rosa con nuovi innesti e, in questo caso, devi adottare un atteggiamento giusto per integrarti e farti accettare. In qualunque squadra abbia giocato, sono sempre stata me stessa e sono sempre riuscita a creare sinceri rapporti d’amicizia con le mie compagne e quindi ero serena. Tuttavia, durante la prima settimana in ritiro ero titubante, ma ora devo dire che quello del Napoli è uno dei migliori gruppi dei quali ho fatto parte.”

Però, la Lazio ha lasciato un segno “diverso” nella tua vita…

“Beh si, lì ho conosciuto Giampiero Serafini, il mio attuale fidanzato, era il mio allenatore quando giocavo nella Lazio. Con lui, avevo legato fin da subito. In lui, oltre che il mio mister, vedevo una bella persona e un buon amico. Successivamente, in seguito a problemi di natura economica sorti con la società, abbiamo litigato e non ci siamo più parlati per un paio di anni. Fino a quando, un Natale, lui mi inviò un sms di auguri, da allora abbiamo ripreso a sentirci e poi a frequentarci, all’epoca io ero a Roma e adesso, dopo 7 anni, ancora ci sopportiamo. Senza dubbio, l’esperienza alla Lazio, mi ha cambiato la vita, mi ha consentito di incontrare la persona con la quale spero di trascorrere il resto della mia esistenza. Lui è un ex calciatore, quindi comprende il mio desiderio di continuare a giocare. Alla fine di ogni stagione, compresa questa, mi chiede: “Che vuoi fare quest’anno?
E da poco gli ho comunicato che intendo continuare.
La distanza rappresenta un problema, il fatto che adesso gioco a Napoli, però, ci agevola parecchio, riusciamo a vederci ogni week end e se mi viene voglia di fare un colpo di testa, in un paio d’ore sono a Roma, anche se lui preferirebbe che ritornassi in zona, tuttavia, non mi va di cambiare maglia, vorrebbe dire ripartire da zero, introdurmi in un altro spogliatoio, farlo a 25 anni è un conto, a 36 è completamente diverso. Qui mi sento a casa, sto bene in tutto e per tutto e vorrei finire qui la mia carriera.”

Cosa farai quando ti sentirai pronta per abbandonare il campo di calcio?

“Lo sport non ti lascia tempo per altro e mi sono sempre dedicata anima e corpo al calcio, ho sempre pensato: “Ci sarà tempo per pensare al lavoro, quando smetto di giocare, il primo lavoro che trovo, me lo faccio piacere.” Tuttavia, adesso la situazione è cambiata, non solo per la crisi lavorativa nella quale il nostro Paese imperversa, ma anche perché in me è maturata la consapevolezza che, dopo 22 anni di calcio, concepirmi relegata per 8 ore dietro alla scrivania di un un ufficio, mi porterebbe all’esaurimento nervoso nel giro di un mese! Ragion per cui, intendo ricercare la soluzione capace di farmi star bene, economicamente, ma anche sotto il profilo emotivo e mentale, ovvero vorrei investire in un progetto che mi aiutai anche a vivere in maniera diversa l’idea di smettere di giocare a calcio. Quest’anno, voglio gettare le basi per costruire il mio futuro: vorrei aprire una scuola calcio diversa dalle solite, ragion per cui, intendo iscrivermi ad un’università on line, senza dubbio meno vincolante, e laurearmi in Psicologia dello sport, in un anno e mezzo dovrei riuscire a terminare gli studi. Non intendo diventare allenatrice, adoro i bambini e voglio aiutarli a crescere ed insegnargli a giocare a calcio. Per riuscire in questo compito, parto dal presupposto che l’aspetto umano è importante tanto quanto quello tecnico. I “Messi e Maradona”, che nascono con i piedi buoni, sono soggetti naturalmente predisposti verso la pratica di questo sport, ma esistono anche giocatori diversi, sui quali puoi lavorare che, se muniti di tanta volontà e testardaggine, possono affinare il loro approccio e, con quest’ultimo, il loro modo di giocare. Nelle “classiche” scuole calcio, tutto è circoscritto allo sterile e standard insegnamento dei fondamentali tecnici, del dribbling piuttosto che dello stop, insegnare ad un soggetto l’approccio mentale ottimale con il quale predisporsi alla pratica di questo sport è quello che manca in tutte le realtà calcistiche. Per me il calcio è altro: il 70% è costituito dalla testa e il restante 30% da altro. Questo spiega perché, quando un calciatore sente tanto la partita, si rende protagonista di performance scadenti. Quando Giampiero mi propose di aprire una scuola calcio a mio nome, risi, perché mi vedevo ancora troppo calciatrice, non riuscivo ad accettare l’idea di concepirmi fuori dal campo e replicavo: “Ci sarà tempo!” Adesso il tempo è arrivato e devo decidere cosa fare da grande, ma non voglio rimpianti.”

Cosa vuoi dire agli appassionati di questo sport che ancora non vi seguono?

“Napoli è una città calorosa che vive di calcio. Domenica sera siamo state allo stadio ad assistere alla partita contro l’Inter e la gente ci ha riconosciute, questo dimostra che i napoletani sanno che esistiamo, ci “conoscono”, ma non ci “riconoscono”, un pò come quelli che credono in Dio ma non vanno in chiesa! Devono solo trovare la voglia e la motivazione per abbandonare lo scetticismo e venire, almeno una volta, ad assistere ad una nostra partita, dopodiché o vanno via o si appassionano. tuttavia, il modo in cui vivono il calcio i napoletani, mi fa propendere per la seconda soluzione.”

Luciana Esposito

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