“Caro Pocho ti scrivo…”

15 maggio 2012. Ore 00:07. Si spengono i miei riflettori, si chiudono i cancelli. Spalti vuoti, l’erbetta riprende vita con l’umidità notturna. Un’altra stagione con i miei beniamini è volata via, dovrò aspettare agosto per tornare a coccolarli. Era il 15 maggio anche l’anno scorso. Alla stessa ora il clima era lo stesso, ma si respirava un’aria diversa. Avevo appena portato in grembo tutti i napoletani festanti. Ho ammirato il giro di campo dei ragazzi con il giusto tributo del pubblico, lo champagne a fiumi, i sorrisi e i gavettoni. “Finalmente Champions” recitava quella maglietta. Avrei voluto che quella sera non finisse mai, avrei voluto intrappolare nelle mie tribune l’amore smisurato della gente.

AMORE E PSICHE. C’eri anche tu in quell’immensa gioia. Perché tu sei uno di noi, Pocho. Ti ricordo sai, con la tua solita smorfia da furbetto e quella mise da cappellaio matto. Ci sei anche stasera, ma la tua solita espressione da burlone l’hai lasciata altrove. Sei uno dei fattori di questa Partenope dimessa e imbronciata che annuso stasera. Certo l’Europa League non scatena salti di gioia. Anche a me mancheranno i brividi delle notti Champions, di quella musichetta cantata a squarciagola, dello scricchiolio preoccupante dei miei pilastri fatiscenti. Eppure a quest’assenza i napoletani sembravano ormai rassegnati. Alla tua partenza no. Alle voci fin troppo fastidiose e fondate salite in cattedra nell’ultima settimana non credevano di dover assistere. E nemmeno io, che ho visto transitare nel mio teatro idoli con la I maiuscola, avrei mai pensato di fare da spettatore inerme di bordate di fischi riservate ad uno dei miei figli. Tra l’altro, molto probabilmente, nella sua ultima apparizione. Ti ho allevato, ti ho ripulito da quell’aspetto impaurito e frastornato con cui arrivasti dall’Argentina. Hai drizzato le spalle, hai assunto spavalderia. Sei diventato un fuoriclasse scugnizzo. Grazie a me, grazie soprattutto a questa città. In un sussulto di rabbia, all’ennesima manifestazione di disappunto nei tuoi confronti durante la gara, avrei voluto calare il sipario e, inclinandomi su di un lato, avrei fatto scivolare via per le arterie di Fuorigrotta tutti i miei concittadini che occupavano le gradinate. Ero stufo di quella commedia dell’assurdo, volevo restare da solo. Perché rovinare una storia così intensa? Gli amori si sa, per volere di uno o dell’altro, sono destinati a finire. Le emozioni vissute, però, non vanno mai in soffitta, vivono dentro di noi. Ho riflettuto un po’. Ho capito. Quei tifosi non ti mancavano di rispetto. Il dolore della pugnalata alle spalle, la reazione ad un tradimento, un innamorato che non sa darsi spiegazioni. Quei fischi non erano altro che una dichiarazione a cuore aperto. Perché l’hai fatto? Cedendo ad altre corteggiatrici, ricercando nuovi stimoli o, peggio ancora, per riempire le tasche? Non c’è giustificazione. Napoli si è concessa a te senza freni, è comprensibile uno scatto d’orgoglio nel sentirsi ripudiata. Questo popolo è la mia ragione di vita, potrei svelarti guai e sogni di ogni singolo visitatore. Il napoletano non paga il biglietto per esprimere un’opinione. Esprime un sentimento, in tutte le sue sfaccettature e con l’unicità della passione che lo caratterizza.

UNA NOTTE DI MEZZ’ESTATE. Soffro d’insonnia. Continuo a girovagare nei tornelli dei mie pensieri. La mia mente balza ad una torrida sera di agosto di cinque anni fa. Era la tua partita d’esordio, Pocho, in Coppa Italia contro il Cesena. Era il 15, ancora una volta, destino beffardo. Le mie vacanze furono però stravolte dalla gara di tre giorni dopo quando, nel turno successivo della competizione nazionale, arrivò il Pisa. Tre gol, scatti, dribbling, percussioni. Calpestasti la prima volta la mia erba inaridita dalle alte temperature e lasciasti tutti a bocca aperta. Ho l’occhio lungo e ho subito ammiccato: quello scapigliato folletto argentino avrebbe impiegato poco ad aizzare le folle. Da allora chiunque si presentò in maglia nerazzurra sul mio terreno di gioco è tornato a casa imbambolato e con la pancia vuota. Immagino, stai sghignazzando. E’ vero, i nemici in bianconero non è che abbiano fatto meglio. Ma sai, visti i chiari di luna, meglio rammentarti qual è il destino dei devoti alla Madonnina.

AU REVOIR. Ti ho visto crescere, sognare. Piangere e sbellicarti dalle risate. Tranciare le difese ed essere trafitto dai tacchetti avversari. Hai sudato la maglia e meritato ovazioni. Sei stato sostituito e hai tirato calci alle borracce. Volevo vederti alzare un trofeo, non ce l’ho fatta. Entri di diritto nell’almanacco delle mie leggende. Non allarmarti, non voglio paragonarti ai mostri sacri. Non contano solo le vittorie. Premio chi ha saputo far battere il cuore della mia Napoli, chi ha fatto divertire e anche un po’ illudere, chi ha saputo esiliare ogni amante del pallone dalle sue beghe quotidiane, alleviando anche solo per due ore di calcio i suoi annosi problemi. Sei uno di noi, te ne do atto. Ormai sono vecchio, da quanto leggo fra un po’ mi faranno una riverniciatina e mi spediranno in panchina. Tu, forse, rimarrai una delle mie ultime emozioni. Fiero di averti ospitato. Ora vado a nanna, chissà cosa troverò al ritorno dalle ferie. Magari sarà stato tutto un incubo, un enorme malinteso, e sarai ancora qui ad indossare la maglia azzurra. Di una cosa sono certo. Il coro “Olè Olè Olè Pocho” riecheggerà nei miei meandri ancora a lungo. In bocca al lupo, Ezequiel. Au revoir.

Con affetto,

Il Tuo Amico “San Paolo”

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